Orario
di lavoro - D.LGS. N. 66/2003 - CIRCOLARE MINISTERO DEL LAVORO N. 8/2005
Il Ministero
del Lavoro, con circolare n. 8 del 3 marzo 2005 di seguito pubblicata, ha
diramato le istruzioni operative in merito all’applicazione di alcuni aspetti
della disciplina attinente l’orario di lavoro dettata dal D.lgs n. 66/2003,
così come integrato e modificato dal D.lgs n. 213/2004.
Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali
Direzione
generale per l’attività ispettiva direzione generale della tutela delle
condizioni di lavoro
Circolare n.
8
Roma, 3
marzo 2005
Oggetto:
Disciplina di alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (D.Lgs.
n. 66/2003; D.Lgs. n. 213/2004).
1. Premessa
Con il
decreto legislativo n. 66 dell’8 aprile 2003, integrato e modificato dal
decreto legislativo n. 213 del 19 luglio 2004, è stata data piena attuazione
anche nel nostro ordinamento alla direttiva comunitaria n. 93/104/CE e
successive modifiche.
È da
sottolineare, in via preliminare, che la direttiva 93/104/CE aveva già trovato
parziale attuazione nell’art. 13 della legge n. 196 del 1997 (che aveva, tra
l’altro, fissato l’orario normale di lavoro in 40 ore settimanali) e
nell’accordo interconfederale Confindustria - CGIL - CISL e UIL del 12 novembre
1997.
In seguito,
la legge n. 409 del 1998, aveva disciplinato l’esecuzione del lavoro
straordinario nelle imprese industriali, mentre con il decreto legislativo n.
532 del 1999, relativo alla disciplina del lavoro notturno, era stata data
attuazione, non solo alla direttiva 93/104, ma anche alla delega conferita al
Governo dall’art. 17, comma 2, della legge n. 25 del 1999.
Pertanto,
l’adempimento agli obblighi derivanti dalla appartenenza alla Unione Europea ha
fornito l’occasione per dare un assetto organico e definitivo all’intera
materia dell’orario di lavoro. Il decreto in esame unifica infatti la
disciplina del tempo di lavoro e quella dei riposi, attuando in larga parte i
contenuti del menzionato Accordo interconfederale del 1997 e garantendo un
ampio spazio di intervento all’autonomia collettiva per ciò che riguarda la modulazione
dei tempi di lavoro (orario normale multiperiodale, gestione degli
straordinari, limiti di orario massimo, ecc.) in rapporto alle esigenze
produttive e organizzative.
Per le parti
riguardanti anche il personale dipendente dalle pubbliche Amministrazioni, la
circolare è stata redatta d’intesa con il Dipartimento della Funzione Pubblica.
2. Finalità
e definizioni
Il decreto
detta una disciplina di carattere generale che definisce l’apparato
terminologico di cui lo stesso decreto fa uso. Le diverse definizioni verranno
illustrate nel prosieguo della circolare. Peraltro, per alcune di esse si
ritiene già in questa sede utile effettuare delle precisazioni.
In proposito
occorre evidenziare una novità sostanziale rispetto alla precedente disciplina
dell’orario di lavoro in ordine ai rinvii operati alla contrattazione
collettiva. Infatti, alle varie definizioni viene aggiunta quella di “contratti
collettivi di lavoro” che, conformemente alla prassi legislativa attualmente in
vigore, sono individuati in quelli stipulati da organizzazioni dei datori di
lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative. Non è specificato
alcun livello di contrattazione collettiva di riferimento. Salve diverse
specifiche disposizioni (art. 17, comma 1°), dunque, il rinvio alla
contrattazione collettiva deve intendersi come rinvio a tutti i possibili
livelli di contrattazione collettiva: nazionale, territoriale, aziendale.
Orario di
lavoro
La nozione
di orario di lavoro è stata sinora ancorata al concetto di lavoro “effettivo”,
già definito dall’art. 3 R.D.L. 692/23 come quel lavoro “che richieda
un’applicazione assidua e continuativa”.
Il decreto
legislativo n. 66/2003, nel riprendere la definizione dettata dalla direttiva
europea, stabilisce (art. 2, punto a)), invece, che per orario di lavoro si
intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione
del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Tale formulazione ha una portata certamente più ampia, così come ha chiarito la
stessa Corte di giustizia europea che ha
ritenuto compresi nell’orario di lavoro i periodi in cui i lavoratori “sono
obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di
lavoro e a tenervisi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire
immediatamente la loro opera in caso di necessità” (sentenza del 9 settembre
2003).
D’altro
canto ciò è confermato dalla circostanza che, nella nuova disciplina, non è
stata più riproposta l’esclusione dalla nozione di orario di lavoro e dalla
disciplina sulla durata massima della prestazione di lavoro di “quelle
occupazioni che richiedano per loro natura o nella specialità del caso, un
lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia” (art. 3 R.D.L. n.
692/1923); nella nuova disposizione, invece, tali lavorazioni vengono
esplicitamente escluse solo dall’ambito di applicazione della disciplina della
durata settimanale (art. 16 DLgs n. 66/2003).
3. Campo di
applicazione
La
disciplina dell’orario di lavoro di cui al decreto legislativo n. 66 del 2003
si applica a tutti i settori di attività, pubblici e privati, in relazione a
rapporti di lavoro subordinato. Si applica anche agli apprendisti che abbiano
raggiunto la maggiore età che, pertanto, possono svolgere lavoro straordinario
e notturno (già possibile, per quanto attiene al lavoro notturno, nelle aziende
artigianali di panificazione e di pasticceria e di quelle del comparto
turistico e dei pubblici esercizi).
Per gli
apprendisti minorenni si applica la disciplina speciale di cui alla legge n.
977 del 1967 e successive modificazioni.
La
disciplina non si applica qualora “altri strumenti comunitari contengano
prescrizioni più specifiche in materia di organizzazione dell’orario di lavoro
per determinate occupazioni o attività professionali”. In particolare, non si
applica al lavoro della gente di mare di cui alla direttiva 1999/63/CE del 21
giugno 1999, che attua l’accordo sull’organizzazione dell’orario di lavoro
della gente di mare concluso dall’Associazione armatori della Comunità europea
(ECSA) e dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell’Unione europea
(FST). In forza di questo atto, espressamente richiamato dal decreto n. 66 del
2003, per “gente di mare” si intende ogni persona occupata o impegnata a
qualunque titolo a bordo di una nave marittima di proprietà pubblica o privata,
registrata nel territorio di uno Stato membro.
Il decreto
legislativo n. 66 del 2003 non si applica inoltre al personale di volo
nell’aviazione civile di cui alla direttiva 2000/79/CE, del 27 novembre 2000,
relativa all’attuazione dell’accordo europeo sull’organizzazione dell’orario di
lavoro del personale di volo nell’aviazione civile concluso da Association of
European Airlines (AEA), European Transport Workers’ Federation (ETF), European
Cockpit Association (ECA), European Regions Airline Association (ERA) e
International Air Carrier Association (IACA). In forza di questo atto,
espressamente richiamato dal decreto 66, per “personale di volo nell’aviazione
civile” si intendono i membri dell’equipaggio a bordo di un aeromobile civile,
impiegati da un’azienda con sede in uno Stato membro.
Il decreto
non si applica neppure ai lavoratori mobili, per quanto attiene ai profili di
cui alla direttiva n. 2002/15/CE dell’11 marzo 2002, concernente l’organizzazione
dell’orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di
autotrasporto. Per “lavoratori mobili” si intendono quelli impiegati quali
membri del personale viaggiante o di volo presso una impresa che effettua
servizi di trasporto passeggeri o merci su strada, per via aerea o per via
navigabile, o a impianto fisso non ferroviario.
In ragione
della peculiare organizzazione del lavoro e della concorrente competenza
regionale in materia di istruzione, il decreto legislativo n. 66 del 2003 non
si applica al personale della scuola di cui al Testo Unico delle disposizioni
legislative in materia di istruzione, né al personale delle Forze armate e di
polizia, nonché gli addetti al servizio di polizia municipale e provinciale, in
relazione alle attività operative specificamente istituzionali.
Infine, il
decreto in oggetto non si applica nei confronti dei servizi di protezione
civile, ivi compresi quelli del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché
nell’ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie e di quelle destinate
per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di
ordine e sicurezza pubblica, delle biblioteche, dei musei e delle aree
archeologiche dello Stato. Nei confronti di queste attività le norme del decreto
non trovano applicazione in presenza di particolari esigenze inerenti al
servizio espletato o di protezione civile, nonché degli altri servizi espletati
dal corpo nazionale dei vigili del fuoco, così come individuate con decreto del
ministro competente, di concerto con i ministri del lavoro e delle politiche
sociali, della salute, dell’economia e delle finanze e per la funzione
pubblica. Nelle more dell’emanazione dei decreti ministeriali indicati si deve
ritenere che continuino a trovare applicazione le attuali discipline, anche
contrattuali, previgenti, ove compatibili.
4. Orario
normale settimanale
Il decreto
legislativo n. 66 del 2003 riprende i contenuti dell’art. 13, della legge n.
196 del 1997 e fissa in 40 ore settimanali l’orario normale di lavoro,
assegnando alla contrattazione collettiva la facoltà sia di stabilire un orario
inferiore che di riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni
lavorative in un periodo non superiore all’anno in modo tale che, nonostante la
flessibilizzazione, nel dato arco temporale non venga superata la media
riferita, ovviamente, all’orario normale. Tale orario di lavoro, purché venga
rispettata la media nei termini suddetti, è orario normale di lavoro e
l’eventuale superamento settimanale delle 48 ore, senza che concorrano ore di
lavoro straordinario, non dovrà essere oggetto di comunicazione, stante la
chiara lettera della legge (purché ovviamente nel periodo di riferimento sia
effettuato il relativo recupero).
Si ricorda,
a questo proposito, che in caso di organizzazione multiperiodale dell’orario di
lavoro, costituisce straordinario ogni ora di lavoro effettuata oltre l’orario
programmato settimanale. Pertanto qualora ad esempio in una settimana sia
svolto un orario programmato di 50 ore la cinquantunesima ora di lavoro sarà
imputata a lavoro straordinario e quindi costituirà motivo sufficiente per la
comunicazione.
Si
evidenzia, inoltre, che anche nel caso di orario multiperiodale, pur non
venendo in essere l’obbligo di comunicazione (in quanto non siano state
effettuate ore di lavoro straordinario che abbiano concorso al superamento
delle 48 ore di lavoro settimanali) resta fermo il limite massimo delle 48 ore
medie nel periodo di riferimento.
È da
sottolineare come nella nuova formulazione si fa riferimento ai “contratti
collettivi” e non ai contratti “collettivi nazionali” di cui al citato art. 13.
Di conseguenza anche i contratti territoriali e aziendali, oltre quelli
nazionali, possono stabilire – purché stipulati da organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative (art. 1, comma 2, lett. m) – una durata
minore ovvero prevedere orari multiperiodali.
Ovviamente,
in questo quadro di flessibilizzazione, i contratti collettivi dovranno,
comunque, rispettare il limite massimo settimanale dell’orario, come
determinato dall’art. 4.
Per quanto
concerne il settore del pubblico impiego, si ritiene che la contrattazione
collettiva decentrata non possa introdurre discipline difformi dalla
contrattazione collettiva nazionale.
L’orario
normale di lavoro è di 40 ore nell’arco della settimana, da intendersi non
necessariamente come settimana di calendario, salva la facoltà della
contrattazione collettiva, di qualsiasi livello, di introdurre il c.d. regime
degli orari multiperiodali, cioè la possibilità di eseguire orari settimanali
superiori e inferiori all’orario normale a condizione che la media corrisponda
alle 40 ore settimanali o alla durata minore stabilita dalla contrattazione
collettiva, riferibile ad un periodo non superiore all’anno.
Il
riferimento all’anno non deve intendersi come anno civile (1° gennaio - 31
dicembre) ma come un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell’anno
ed il corrispondente giorno dell’anno successivo, tenendo conto delle
disposizioni della contrattazione collettiva.
Nel computo
dell’orario normale di lavoro, stante la definizione di orario di lavoro, non
rientrano i periodi in cui il lavoratore non è a disposizione del datore, nel
senso precisato nel paragrafo 2, ovvero nell’esercizio della sua attività e
delle sue funzioni. Quindi le ore non lavorate potranno essere recuperate in
regime di orario normale di lavoro.
Laddove,
pertanto, uno di questi eventi venga a coincidere con giornate in cui, a
seguito della programmazione multiperiodale, sia stato previsto un orario
superiore o inferiore a quello normale, le parti del rapporto sono tenute a
concordare lo spostamento in altra data di un eguale incremento o riduzione
della prestazione.
Le eventuali
ore di incremento prestate e non recuperate assumono la natura di lavoro
straordinario e devono essere compensate secondo le modalità previste dai
contratti.
I contratti
collettivi possono stabilire che la durata dell’orario normale sia ridotta
rispetto al limite legale delle 40 ore. Questa facoltà ha ad oggetto una
riduzione d’orario valida ai soli fini contrattuali.
La
possibilità di modulare l’orario di lavoro su base settimanale, mensile o
annuale è stata attuata dal decreto legislativo n. 66 del 2003 anche attraverso
l’eliminazione del limite giornaliero di durata della prestazione lavorativa.
Nel nostro ordinamento non vige più, pertanto, un limite positivo alla durata
giornaliera del lavoro ma, semmai, un limite che può ricavarsi, a contrario,
dal combinato disposto dagli articoli 7 e 8 del decreto nella misura di 13 ore
giornaliere, ferme restando le pause. Tale individuazione risulta conforme al
dettato costituzionale che impone alla legge di definire la durata massima
della giornata lavorativa.
La
limitazione positiva della durata della prestazione lavorativa giornaliera,
benché non sia disposta per legge, potrebbe essere disposta dalla autonomia
privata, ma ai soli fini contrattuali, imponendo un limite anche alla
modulazione, pertanto alla flessibilità, dell’organizzazione del lavoro nella
sue caratteristiche temporali.
Deroghe alla
durata settimanale dell’orario
L’art. 16
del decreto, che recepisce le corrispondenti disposizioni dell’Accordo
interconfederale del 1997, ampliandole con le fattispecie di cui alle lettere
“m” ed “n”, riporta l’elencazione delle ipotesi per le quali non si applica la
disposizione sulla durata settimanale di 40 ore di lavoro. Per queste attività,
quindi, non esiste un orario settimanale normale stabilito per legge.
Si tratta di
una serie di attività e di prestazioni suscettibili di aggiornamento e
armonizzazione con i principi della nuova normativa mediante decreto del
Ministero del lavoro, da adottare sentite le OO.SS. datoriali e dei lavoratori
maggiormente rappresentative.
Pertanto,
tutte le attività che rientrano tra le ipotesi dell’articolo in questione
continuano a mantenere la loro specificità, salvo i necessari adeguamenti al
principio della durata media settimanale di 48 ore che dovranno essere adottati
con i decreti di armonizzazione previsti dal secondo comma dell’art. 16.
5.
Violazioni in materia di orario normale di lavoro
L’art. 3,
comma 1, del D.Lgs. n. 66/2003 prevede che “l’orario normale di lavoro é
fissato in 40 ore settimanali”. Ai soli fini contrattuali, i contratti
collettivi di lavoro possono prevedere una minore durata.
A tal
proposito va chiarito che le 40 ore settimanali di lavoro sono calcolate non
necessariamente sulla base della settimana lavorativa ma per ogni periodo di
sette giorni.
La
violazione della previsione è punita in via amministrativa con la sanzione da
euro 25,00 a euro 154,00 inoltre, se la violazione si riferisce a più di cinque
lavoratori ovvero si è verificata nel corso dell’anno solare per più di
cinquanta giornate lavorative, la sanzione amministrativa va da euro 154,00 a
euro 1.032,00 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.
Per tale
violazione non trova applicazione l’istituto della diffida di cui all’art. 13
del d.lgs. n. 124/2004.
6. Durata
massima dell’orario di lavoro
Il decreto,
al fine di tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori, di consentire una più
attuale distribuzione dei tempi di vita e di lavoro e di garantire eque
condizioni di concorrenza tra le imprese, nel mercato comunitario, prevede un
sistema di limiti alla durata della prestazione lavorativa organizzati in modo
flessibile.
La durata
massima settimanale dell’orario di lavoro, comprensiva sia del lavoro ordinario
sia di quello straordinario, è stabilita dai contratti collettivi e riguarda,
in generale, sia il settore pubblico sia il settore privato.
L’orario
settimanale, sia in presenza sia in assenza di contrattazione applicabile, non
può superare le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario, per ogni
periodo di sette giorni calcolate, come media, su un periodo di riferimento non
superiore a 4 mesi.
A tale
limite deve attenersi l’autonomia individuale.
Il limite
delle 48 ore medie, nel periodo di riferimento, deve essere rispettato sia nel
caso in cui il datore stabilisca un orario rigido e uniforme sia nel caso in
cui l’orario di lavoro venga disciplinato in senso multiperiodale mediante il
rispetto del limite come media, per ogni periodo di sette giorni, in un
determinato periodo. Quindi il decreto non vieta prestazioni che superino,
nell’arco di sette giorni, le 48 ore in quanto il periodo di riferimento sia un
periodo più ampio della settimana e non superiore a quattro mesi, salvi i più
ampi periodi che può fissare la contrattazione collettiva. Nella settimana
lavorativa si potrà superare il limite delle 48 ore settimanali purché vi siano
settimane lavorative di meno di 48 ore in modo da effettuare una compensazione
e non superare il limite delle 48 ore medie nel periodo di riferimento.
L’attività
potrà essere concentrata in alcuni periodi e ridotta in altri in modo da
realizzare una efficiente gestione dei fattori produttivi. Ad esempio, in un
periodo di 4 mesi dal 1 gennaio al 30 aprile, l’orario settimanale di lavoro
del mese di gennaio potrebbe essere di 60 ore, di 40 ore il mese di febbraio e
di 35 ore il mese di marzo e di 48 ore il mese di aprile.
Nel caso in
cui la contrattazione collettiva non provveda a disciplinare l’orario di lavoro
multiperiodale, l’autonomia individuale potrà intervenire esclusivamente con
riferimento all’orario di lavoro straordinario.
La
contrattazione collettiva, oltre che determinare la durata massima settimanale
dell’orario di lavoro, ha facoltà di elevare il periodo di riferimento, in
relazione agli specifici interessi del settore cui i datori di lavoro ed i
lavoratori appartengono, da 4 fino a 6 mesi e, in caso di ragioni obiettive,
tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, fino a 12 mesi.
La durata
massima dell’orario di lavoro, pari a 48 ore medie nel periodo di riferimento,
si applica anche nei confronti degli apprendisti maggiorenni. I lavoratori
adolescenti, anche non apprendisti, rimangono assoggettati alla disciplina
della l. n. 977 del 1967 che, all’articolo 18, pone un limite orario
settimanale di 40 ore ed uno giornaliero di 8 ore. Di tale limitazione, anche
giornaliera, deve tenersi conto anche nell’ipotesi di distribuzione dell’orario
di lavoro su base multiperiodale. Per i bambini, liberi da obblighi scolastici,
la stessa disposizione legislativa prevede al primo comma che l’attività
lavorativa non può essere prestata per più di 7 ore giornaliere e 35
settimanali.
7.
Violazione in materia di durata massima dell’orario di lavoro
L’articolo
4, comma 2, del decreto legislativo n. 66/2003 stabilisce che “la durata media
dell’orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette
giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario”. In base
ai successivi commi 3 e 4, la durata media dell’orario di lavoro deve essere
calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi e i
contratti collettivi di lavoro possono in ogni caso elevare tale limite fino a
sei mesi ovvero fino a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o
inerenti all’organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti
collettivi.
La
violazione di tale previsione è punita con la sanzione amministrativa da euro
130,00 a euro 780,00 per ogni lavoratore e per ciascun periodo di riferimento
cui si riferisca la violazione.
Per quanto
attiene alle modalità di computo delle 48 ore settimanali va tenuto presente
che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del decreto legislativo n. 66 del 2003 “i
periodi di ferie e i periodi di assenza per malattia non sono presi in
considerazione ai fini del computo della media”.
Sebbene la
previsione normativa faccia esclusivo riferimento solo alle ferie e alla
malattia, in considerazione della ratio della disposizione, sembra possibile
equiparare a tali assenze quelle dovute ad infortunio e gravidanza, che
comunque si ricollegano allo stato di salute del lavoratore. Tutti i restanti
periodi di assenza con diritto alla conservazione del posto restano pertanto
ricompresi nell’arco temporale di riferimento, sia pur con indicazione delle
ore pari a zero.
In
riferimento invece all’arco temporale di quattro, sei o dodici mesi sul quale
va calcolata la media delle ore di lavoro effettuate, si precisa che lo stesso
è da considerarsi scorrevole limitatamente ai periodi di ferie e malattia e
periodi equiparabili alla malattia a differenza di quanto avviene negli altri
periodi di sospensione (ad es. sciopero).
In altre
parole, l’arco temporale di riferimento può superare il quadrimestre (ovvero il
semestre o l’anno) in quanto nella sua determinazione non vanno computate le
assenze dovute a ferie e malattia o periodi equiparabili alla malattia; ad
esempio, nel considerare il quadrimestre gennaio/aprile, tale periodo, in
considerazione delle assenze dovute a malattia, potrebbe scorrere nel mese di
maggio.
Quanto alla
procedura estintiva della violazione mediante diffida, trattandosi di condotta
commissiva e non risultando comunque recuperabile l’interesse sostanziale
protetto dalla norma, si ritiene che la stessa non possa trovare applicazione.
8.
Violazione dell’obbligo di comunicazione del superamento delle 48 ore
settimanali
L’art. 4,
comma 5, del decreto legislativo n. 66 del 2003, come modificato dall’art. 1,
comma 1 lett. c) del decreto legislativo n. 213 del 2004 stabilisce che “in
caso di superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, attraverso prestazioni
di lavoro straordinario, per le unità produttive che occupano più di dieci
dipendenti il datore di lavoro é tenuto a informare, entro trenta giorni dalla
scadenza del periodo di riferimento… la Direzione provinciale del lavoro -
Settore ispezione del lavoro competente per territorio”.
La
violazione della disposizione, in relazione a ciascun quadrimestre o al diverso
periodo stabilito dalla contrattazione collettiva, è punita con la sanzione
amministrativa da euro 103,00 a euro 200,00 euro.
Si
sottolinea che detto obbligo, seppur formulato in modo analogo a quanto già
previsto dall’art. 5 bis, comma 1, del R.D.L. n. 692/1923, come sostituito
dall’art. 1, comma 1, della legge n. 409 del 1998, ha un maggior campo di
applicazione, considerato che non è più limitato alle sole aziende industriali
bensì a ciascun datore di lavoro, ma solo per la singola unità produttiva in
cui egli occupi più di 10 dipendenti.
Ai fini della
configurazione della fattispecie è necessario che il superamento delle 48 ore
settimanali ricomprenda prestazioni di lavoro straordinario, giacché se il
superamento avviene sulla base di un orario di lavoro multiperiodale
l’adempimento non è dovuto.
A differenza
di quanto avviene per il calcolo del superamento delle 48 medie, l’arco
temporale di riferimento (quattro, sei o dodici mesi) ha natura fissa, così
come già chiarito da questo Ministero con la precedente circolare n. 27 del 30
luglio 2003 e con la successiva nota n. 5/27373/70 dell’11 settembre 2003.
Circa invece
il superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, la relativa comunicazione
deve riguardare il numero delle settimane in cui detto limite risulta superato
per ogni periodo di 7 giorni.
Si precisa,
inoltre, che per effetto delle disposizioni di cui all’art. 16 del decreto
legislativo n. 66 del 2003, con riferimento al personale nei confronti del
quale non si applica il limite dell’orario normale di lavoro pari a 40 ore
settimanali, non opera la sanzione in esame, giacché tale personale è escluso
dall’obbligo di comunicazione.
La condotta
in esame è di natura omissiva e l’interesse protetto dalla disposizione appare
sicuramente recuperabile, anche in ragione della non incidenza diretta sulla
tutela psico-fisica del lavoratore; risulta pertanto possibile l’applicazione
della procedura estintiva della diffida.
9. Lavoro
straordinario
Il “lavoro
straordinario”, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto
legislativo n. 66 del 2003, è quello prestato oltre l’orario normale così come
definito dall’articolo 3 del decreto.
Il ricorso
al lavoro straordinario “deve essere contenuto”.
Non è più
prevista una durata massima giornaliera delle prestazioni straordinarie (così
come la prevedeva, per i datori di lavoro che non fossero imprenditori
industriali, l’art. 5 r. d. l. n. 692
del 1923), bensì una durata massima settimanale che, cumulata con le ore di
lavoro normale, non può superare il livello medio di 48 ore. Infatti, ai sensi
dell’articolo 4, comma 2, la durata medio/massima dell’orario di lavoro per
ogni periodo di sette giorni, non può superare le 48 ore medie, comprensive del
lavoro straordinario, nel periodo di riferimento.
Il ricorso
al lavoro straordinario è legittimo in presenza di un accordo collettivo
applicato ovvero applicabile, che preveda una disciplina del lavoro
straordinario ovvero, in mancanza di esso, in presenza di un previo accordo tra
datore di lavoro e lavoratore. In questo ultimo caso il ricorso al lavoro
straordinario non può superare le 250 ore annue, oltre alle casistiche previste
al comma 4 dell’art. 5 del decreto.
Perché possa
essere superato il suddetto limite è necessario, quindi, che esista un
contratto collettivo applicato ovvero applicabile, inoltre è necessario che il
contratto collettivo disciplini il ricorso al lavoro straordinario.
In aggiunta
ai limiti fissati dal contratto collettivo o dalla legge (250 ore annuali) il
ricorso al lavoro straordinario è consentito, salvo diversa disciplina
collettiva, in relazione all’ipotesi in cui non sia possibile fronteggiare i
casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive attraverso l’assunzione di
altri lavoratori; nei casi di forza maggiore; nei casi in cui la mancata
esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario possa dare luogo a un
pericolo grave e immediato ovvero a un danno alle persone o alla produzione.
Inoltre è
consentito in caso di eventi particolari, come mostre, fiere e manifestazioni
collegate alla attività produttiva, nonché allestimento di prototipi, modelli o
simili, predisposti per le stesse, preventivamente comunicati agli uffici
competenti ai sensi dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, come sostituito
dall’art. 2, comma 10, della legge n. 537 del 1993.
In
quest’ultimo caso gli eventi indicati devono essere comunicati in tempo utile
alle rappresentanze sindacali aziendali.
Anche in
questi casi, a fronte della richiesta del datore, il lavoratore è tenuto alla
prestazione del lavoro straordinario, salvo sussistano ragioni che consentano
al lavoratore di rifiutarne l’esecuzione.
Il lavoro
straordinario deve essere computato separatamente dal computo del lavoro
normale e deve essere retribuito con una maggiorazione, rispetto al lavoro
normale, il cui ammontare è stabilito dalla contrattazione collettiva.
Quest’ultima può disporre che, in aggiunta o in alternativa alla maggiorazione
retributiva, i lavoratori possano usufruire di riposi compensativi. In questo
caso le prestazioni straordinarie eseguite non sono computabili ai fini della
durata media dell’orario di lavoro prevista, nella misura massima complessiva
delle 48 ore settimanali, dall’articolo 4, comma 2.
In caso di
superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, questa volta da intendersi come
valore assoluto, attraverso prestazioni di lavoro straordinario, entro trenta
giorni dalla scadenza del periodo di riferimento di 4 mesi o di quello
superiore previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro che occupa più
di dieci dipendenti nell’unità produttiva interessata è tenuto a informare la
direzione provinciale del lavoro - Settore ispezione del lavoro competente per
territorio. Qualora il superamento del limite delle 48 ore non avvenga
attraverso prestazioni di lavoro straordinario non è dovuta la comunicazione ex
art. 4, comma 5.
L’obbligo di
comunicazione può essere adempiuto secondo le modalità previste dai contratti
collettivi, in questo caso il mancato rispetto delle disposizioni contrattuali
non costituisce violazione dell’obbligo di comunicazione purché sia comunque
raggiunto lo scopo comunicativo.
Ai fini del
calcolo dei dipendenti non devono essere computati i lavoratori con contratto
di somministrazione, mentre i lavoratori a tempo parziale devono essere
computati in proporzione all’orario svolto tranne che nel settore del pubblico
impiego.
10.
Violazioni in materia di lavoro straordinario
Ai sensi
dell’art. 5, comma 3, del decreto legislativo n. 66 del 2003 il datore di
lavoro non può fare eseguire ai propri dipendenti lavoro straordinario oltre le
250 ore annue ovvero oltre i diversi limiti temporali stabiliti dalla
contrattazione collettiva. Oltre tali limiti e salva diversa ipotesi prevista
dai contratti collettivi, è ammesso lo svolgimento di lavoro straordinario al verificarsi
di tali condizioni:
- nei casi
di eccezionali esigenze tecnico-produttive con impossibilità di fronteggiarle
mediante assunzione di altri lavoratori;
- nei casi
di forza maggiore o di pericolo grave e immediato o ancora di danno alle
persone o alla produzione;
- in
occasione di altri eventi particolari (mostre, fiere, manifestazioni etc.).
La
disposizione, quindi, fissa sia limiti quantitativi che tipologici alla
prestazione di lavoro straordinario, che non riguardano, evidentemente, il
personale di cui all’art. 16 del decreto legislativo n. 66 del 2003, per il
quale non trova applicazione la disciplina dell’orario normale di lavoro.
In
riferimento ai limiti quantitativi, appare sanzionabile il datore di lavoro che
faccia superare il limite del lavoro straordinario contrattualmente fissato,
solo se lo stesso sia superiore al limite legale delle 250 ore annuali, ferme
restando le deroghe individuate dalla legge per eventi eccezionali, particolari
o forza maggiore.
Se il limite
previsto dalla contrattazione collettiva è inferiore alle 250 ore, solo al
superamento di detta soglia, ma fatte salve le ipotesi derogatorie di cui al
comma 4 dell’art. 5 (casi eccezionali, forza maggiore, eventi particolari
ecc.), si configura la violazione della previsione normativa.
Nelle
ipotesi in cui la contrattazione collettiva individui limiti tipologici (ossia
individui i casi o le ipotesi in cui è possibile chiedere prestazioni di lavoro
straordinario) ovvero in cui il limite posto dalla contrattazione collettiva
sia superiore alle 250 ore, tale previsione opera quale scriminante rispetto
alla violazione del limite di legge e pertanto solo al superamento di essa il
datore di lavoro è assoggettato alla sanzione, salva sempre l’operatività delle
ipotesi derogatorie (casi eccezionali, forza maggiore, eventi particolari
ecc.).
Risulta
inoltre sanzionabile il datore di lavoro che ricorre al lavoro straordinario,
oltre il limite delle 250 ore o maggior limite previsto dalla contrattazione
collettiva, al di fuori delle ipotesi derogatorie (casi eccezionali, forza
maggiore, eventi particolari ecc.), la cui applicabilità può peraltro essere
esclusa, in tutto o in parte, dalla contrattazione collettiva.
Il
superamento dei predetti limiti quantitativi e tipologici è soggetto alla sanzione
amministrativa da euro 25,00 a euro 154,00; inoltre, se la violazione si
riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata nel corso dell’anno
solare per più di cinquanta giornate lavorative, la sanzione amministrativa va
da euro 154,00 a euro 1.032,00 e non è ammesso il pagamento della sanzione in
misura ridotta.
Per tale
violazione non trova applicazione l’istituto della diffida di cui all’art. 13
del decreto legislativo n. 124 del 2004.
Computo e
retribuzione del lavoro straordinario
L’art. 5,
comma 5, del decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce, senza sostanziali
novità rispetto alla precedente disciplina di cui all’art. 5 del R.D.L. n.
692/1923, che “il lavoro straordinario deve essere computato a parte e
compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi
di lavoro. I contratti collettivi possono in ogni caso consentire che, in
alternativa o in aggiunta alle maggiorazioni retributive, i lavoratori
usufruiscano di riposi compensativi”.
La
violazione della disposizione è punita con la sanzione amministrativa da euro
25,00 a euro 154,00; inoltre, se la violazione si riferisce a più di cinque
lavoratori ovvero si è verificata nel corso dell’anno solare per più di
cinquanta giornate lavorative, la sanzione amministrativa va da euro 154,00 a
euro 1.032,00 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.
Si
sottolinea al riguardo che rispetto al passato, ove era fissata nella misura
del 10 per cento la maggiorazione minima della retribuzione straordinaria, la
violazione si configura necessariamente con la mancata corresponsione della
maggiorazione retributiva stabilita dalla contrattazione collettiva ovvero con
il mancato riconoscimento del riposo compensativo previsto dal contratto
collettivo.
Per quanto concerne la definizione
dell’illecito mediante diffida a regolarizzare, non sembrano sussistere
ostacoli all’utilizzo della stessa, considerata sia la natura omissiva delle fattispecie
contemplate, sia la possibilità di recuperare agevolmente l’interesse protetto.
11.
Criteri di computo
L’art. 6,
comma 1, del decreto legislativo n. 66 del 2003 prevede che i periodi di ferie
e di assenze per malattia non devono essere considerati ai fini del computo
della media di cui all’art. 4. Il riferimento alla malattia, coma già
accennato, si ritiene debba intendersi equivalente a quello di “stato
invalidante” e comprendere quindi anche le assenze comunque legate alla salute
del lavoratore (infortunio, gravidanza ecc.). L’interpretazione più corretta
sembra consistere nel considerare neutre tali assenze rispetto al calcolo della
media, con il conseguente slittamento del periodo di riferimento sul quale
calcolare la media.
Lo
“slittamento” del periodo di riferimento è, ovviamente, riferito al solo
calcolo della media delle ore settimanali lavorate (non superiore alle 48) ma
non rileva ai fini della scadenza dei termini per la comunicazione di cui al
comma 5 dell’art. 4 (superamento tramite straordinario) che indipendentemente
dalle assenze resterà cristallizzato nei termini di legge od in quelli fissati
dalla contrattazione collettiva.
Il comma 2
dello stesso articolo prevede che non vengano computate, ai fini del calcolo
della media in questione, le ore di lavoro straordinario per le quali il
lavoratore abbia beneficiato del riposo compensativo. In questo caso sembra
doversi ritenere che tale meccanismo di calcolo possa essere adottato solo
qualora sia il lavoro straordinario sia il relativo riposo compensativo siano
effettuati in un medesimo periodo di riferimento, dovendosi, al contrario
provvedere a computare le ore di straordinario effettuate qualora il riposo
compensativo sia effettuato in un successivo periodo di riferimento.
Diversamente,
stante la lettera dell’art. 6 che fa riferimento ai criteri di computo ai fini
del solo calcolo della media, il lavoro straordinario effettuato nella
settimana, qualora il relativo riposo compensativo non sia goduto nella stessa,
sarà computato ai fini della comunicazione, di cui al comma 5 dell’art. 4,
relativa al superamento delle 48 ore nella singola settimana a causa della
prestazione di lavoro straordinario.
Il criterio
di calcolo basato sulla media individua il limite entro il quale deve
considerarsi rispettato il principio della tutela della salute e della
sicurezza del lavoro, indipendentemente dalla durata effettiva del rapporto di
lavoro.
Va inoltre
chiarito che, nel caso di rapporti a tempo determinato di durata inferiore al
periodo di riferimento (4, 6 o 12 mesi), per il calcolo dell’orario medio di
lavoro è necessario considerare l’effettiva durata del contratto di lavoro a
termine. Invece nei rapporti di lavoro risolti inaspettatamente prima della
scadenza del periodo di riferimento, il periodo da prendere in considerazione
quale base di calcolo della media è pari a 4 mesi (ovvero 6 o 12 mesi qualora
previsto dalla contrattazione collettiva).
12. Riposo
giornaliero
Il
lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutive ogni 24 ore, calcolate
dall’ora di inizio della prestazione lavorativa. Rimane ferma la durata del
normale orario settimanale fissato in 40 ore o nel minor valore individuato
dalla contrattazione.
Il periodo
di riposo di undici ore è un periodo minimo, salvi i casi di deroghe previste,
quindi l’eventuale accordo che diminuisca tale periodo è nullo e sostituito di
diritto dalla disposizione normativa.
Le parti
possono accordarsi per un periodo di riposo maggiore di quello stabilito
dall’art. 7 del decreto legislativo n. 66 del 2003, in questo caso il
lavoratore ha facoltà di rinunciare al periodo di riposo compreso tra la misura
convenzionale e quella minima prevista.
Il
lavoratore ha diritto al periodo di riposo giornaliero anche qualora sia
titolare di più rapporti di lavoro.
Peraltro,
poiché non esiste alcun divieto di essere titolari di più rapporti di lavoro
non incompatibili, il lavoratore ha l’onere di comunicare ai datori di lavoro
l’ammontare delle ore in cui può prestare la propria attività nel rispetto dei
limiti indicati e fornire ogni altra informazione utile in tal senso.
Il riposo
giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo salvo che per le attività
caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, ossia per
quelle attività che, per loro natura, sono svolte in tal modo come, in
particolare, l’attività del personale addetto alle pulizie. Per queste ultime
attività, sarà la contrattazione collettiva a disciplinare le più opportune
modalità di fruizione del riposo giornaliero.
Nel periodo di
riposo non si computano i riposi intermedi, nonché le pause di lavoro di durata
non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore,
comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro,
durante le quali non sia richiesto alcun
tipo di prestazione lavorativa in quanto
non si tratta di un periodo di riposo continuativo.
Questi
periodi non rientrano nell’orario di lavoro né nel periodo di riposo.
Il terzo
comma dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 66 del 2003 recita
testualmente che “Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi,
rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei
limiti di durata i periodi di cui all’art. 5, regio decreto 10 settembre 1923,
n. 1955, e successivi atti applicativi, e dell’art. 4 del regio decreto 10
settembre 1923, n. 1956, e successive integrazioni”. Questi periodi, pertanto, non rientrano nell’orario di
lavoro.
Il richiamo
operato all’art. 5 del R.D.
10/9/23, n. 1955, ha la sola finalità di individuare i periodi
suddetti. Deve, pertanto, ritenersi
abrogato il disposto di cui al secondo comma del citato articolo 5 il quale
prevedeva che “i riposi normali, perché
possano essere detratti dal computo del lavoro effettivo, debbono essere prestabiliti
ad ore fisse ed indicati nell’orario di cui all’art. 12”.
Da ciò
deriva che, alla luce della vigente disciplina,
la pausa intermedia di 10 minuti possa essere anche mobile. Allo stesso
modo deve pure considerarsi decaduto l’obbligo della esposizione dell’orario
“in modo facilmente visibile ed in luogo
accessibile a tutti i dipendenti” così come l’obbligo di comunicarlo
all’Ispettorato del Lavoro previsto dall’art. 12 del citato regio decreto.
Deroghe in
materia di riposo giornaliero
L’art. 7,
nella parte che determina la misura e la consecutività del riposo giornaliero,
può essere derogato ai sensi dell’art. 17. La deroga può essere disposta
da contratti collettivi o accordi
conclusi a livello nazionale tra le organizzazioni sindacali nazionali comparativamente
più rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro firmatarie
di contratti collettivi nazionali di lavoro o, conformemente alle regole
fissate nelle medesime intese, mediante contratti collettivi o accordi conclusi
al secondo livello di contrattazione.
Per poter
derogare alla disposizione in materia di riposo le parti devono accordare ai
prestatori di lavoro periodi equivalenti di riposo compensativo. Se, in casi
eccezionali ed oggettivi, non possono essere previsti dei periodi di riposo
compensativo ai lavoratori interessati, deve essere accordata loro una
protezione appropriata. In presenza di una siffatta tutela devono considerarsi ancora in vigore le
previgenti disposizioni collettive
che regolamentano l’orario di lavoro non rispettando il limite di 11 ore
di riposo consecutivo.
Nelle
ipotesi di attività frazionate le deroghe alla disciplina in materia di riposi
alle condizioni di cui all’art. 17, comma 4, possono avere ad oggetto la durata
del riposo.
13. Pause
Il
lavoratore ha diritto ad un intervallo di pausa dall’esecuzione della
prestazione lavorativa quando la stessa ecceda le sei ore nell’ambito
dell’orario di lavoro.
Le funzioni
per le quali è previsto il diritto alla pausa sono individuate nell’esigenza di
consentire il recupero delle energie, nell’eventuale consumazione del pasto e
nell’attenuazione del lavoro ripetitivo e monotono. La durata e le modalità
della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva.
In mancanza
di contrattazione collettiva che preveda una pausa per una finalità qualsiasi,
anche ulteriore rispetto a quelle previste dal decreto, il lavoratore ha
diritto ad un intervallo non inferiore a 10 minuti.
Il periodo
di pausa può essere fruito anche sul posto di lavoro, in quanto la finalità
della pausa è quella di costituire un intervallo tra due momenti di esecuzione
della prestazione, ma non può essere sostituito da compensazioni economiche.
La eventuale
“concentrazione” della pausa all’inizio o alla fine della giornata lavorativa,
che determina in sostanza una sorta di riduzione dell’orario di lavoro, può
essere ritenuta lecita come disciplina derogatoria, ex art. 17 comma 1 e per il
legittimo esercizio della quale è necessario accordare ai lavoratori degli
equivalenti periodi di riposo compensativo o, comunque, assicurare una
appropriata protezione.
Quindi si
ritengono superate, dalle disposizioni di legge, quelle regole collettive o
individuali che prevedono al posto della pausa la sola compensazione economica.
La
determinazione del momento in cui godere della pausa è rimessa al datore di
lavoro che la può individuare, tenuto conto delle esigenze tecniche
dell’attività lavorativa, in qualsiasi momento della giornata lavorativa e non
necessariamente successivamente al trascorrere delle 6 ore di lavoro.
Quindi,
nell’ipotesi in cui l’organizzazione del lavoro preveda la giornata c.d.
spezzata, la pausa potrà coincidere con il momento di sospensione dell’attività
lavorativa.
La pausa
minima stabilita per legge e corrispondente a 10 minuti deve essere fruita
consecutivamente affinché possa essere raggiunta la finalità per la quale è
prevista. I periodi di pausa, stante la definizione di orario di lavoro, non
vanno computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata.
I periodi di
pausa non sono retribuiti, salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi.
In particolare non sono retribuiti i riposi intermedi che siano presi sia
all’interno che all’esterno dell’azienda; il tempo impiegato per recarsi al
posto di lavoro; le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e
complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di
ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta
alcuna prestazione.
Pausa per
alcune particolari attività
I lavoratori
che utilizzino un’attrezzatura munita di
videoterminali in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, hanno
diritto, qualora svolgano tale attività per almeno quattro ore consecutive, ad
una pausa stabilita, nelle modalità, dalla contrattazione collettiva.
Qualora
nulla disponga la contrattazione collettiva, questi lavoratori hanno diritto a
15 minuti di pausa ogni 120 minuti di applicazione continuativa al
videoterminale, senza possibilità di cumulo all’inizio ed al termine
dell’orario di lavoro. Il tempo di pausa è considerato orario di lavoro.
Il periodo
di pausa di cui all’articolo 8 è assorbito da quello appena indicato quando
quest’ultimo comporti una interruzione dell’attività lavorativa e non consista
in un cambiamento dell’attività.
14. Riposi
settimanali
Il
lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive,
ogni sette giorni, di regola coincidenti con la domenica. Il periodo di riposo
settimanale deve essere cumulato con il riposo giornaliero, per un totale di 35
ore consecutive nelle ipotesi in cui il periodo di riposo sia individuato in 11
ore.
Il decreto
pone una intricata disciplina in materia di eccezioni e deroghe ai principi
indicati in materia di riposi settimanali.
In particolare
prevede due categorie di eccezioni.
Da un lato
prevede che le regole della periodicità, della coincidenza con la domenica,
della durata e della consecutività possano essere derogate per alcune attività,
quelle di cui alle lettera a), b), c) dell’art. 9, comma 2 del decreto
legislativo n. 66 del 2003. Inoltre prevede che la contrattazione collettiva
possa introdurre delle deroghe purché ai lavoratori siano concessi periodi
equivalenti di riposo compensativo o, in caso di eccezionale impossibilità oggettiva,
che sia predisposta una protezione
appropriata a favore degli stessi.
Dall’altro
lato prevede che la regola della coincidenza del riposo domenicale possa essere
derogato nelle ipotesi elencate - peraltro già contenute nell’art. 5 della
legge n. 370 del 1934 - in cui il riposo settimanale di 24 ore consecutive può
essere spostato in un giorno diverso dalla domenica e attuato mediante turni
del personale.
Innanzitutto,
per quanto riguarda la prima categoria di eccezioni, la disposizione che
prevede che il periodo di riposo settimanale debba coincidere con la domenica
può essere derogata in quanto la coincidenza è esclusivamente tendenziale. La
disposizione che prevede la cadenza del riposo ogni sette giorni può essere
derogata, in conformità agli orientamenti consolidati e prevalenti in
giurisprudenza, in presenza, si ritiene, di una triplice condizione: che
esistano degli interessi apprezzabili, che si rispetti, nel complesso, la
cadenza di un giorno di riposo ogni sei di lavoro, che non si superino i limiti
di ragionevolezza con particolare riguardo alla tutela della salute e sicurezza
dei lavoratori. La disposizione che prevede la durata del riposo può essere
derogata nel limite delle 24 ore che costituiscono la soglia minima di tutela.
Qualora esistano delle disposizioni che prevedono la durata del riposo al di
sotto di tale soglia, le stesse dovranno prevedere un recupero compensativo. La
disposizione che prevede la consecutività delle ore di riposo può anch’essa
essere derogata nel rispetto del limite delle 24 ore.
Il decreto
fa salve le disposizioni speciali in materia di riposi settimanali e deroghe
previste dalla disciplina dettata in materia di riposi domenicali e
settimanali.
Le
ulteriori attività per le quali il
decreto legislativo n. 66 del 2003 ammette la derogabilità della disciplina del
riposo settimanale, che non siano già previste da disposizioni vigenti, saranno
individuate con decreto del Ministero del Lavoro, adottato dopo aver sentito le
organizzazioni sindacali nazionali di categoria comparativamente più
rappresentative, nonché le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro.
Pertanto,
qualora un contratto collettivo finisca per identificare una nuova attività,
diversa da quelle già previste, si dovrà attivare la procedura di cui all’art.
9.
15.
Violazioni in materia di riposo giornaliero e settimanale
L’art. 7 del
decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce che “ferma restando la durata
normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di
riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere
fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di
lavoro frazionati durante la giornata”.
La
previsione stabilisce pertanto che il datore di lavoro non può richiedere al
lavoratore lo svolgimento di una prestazione lavorativa, sia a titolo di orario
normale di lavoro (anche multiperiodale), sia a titolo di lavoro straordinario,
la cui durata determini il mancato rispetto del limite di 11 ore di riposo consecutivo
nell’arco delle 24 ore.
La
previsione introduce anche un ulteriore obbligo per il datore di lavoro,
relativo alla consecutività del riposo, con la sola eccezione delle attività
caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata (ad es. le
attività di pulizie e quelle tipiche della ristorazione).
L’art. 9 del
decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce che “il lavoratore ha diritto
ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore
consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore
di riposo giornaliero…”.
La
violazione della disposizione è punita con la sanzione amministrativa da euro
105,00 a euro 630,00.
Si
evidenzia, anzitutto, che deve ritenersi integrata la fattispecie sanzionatoria
in tutte quelle ipotesi in cui, pur concedendo il riposo delle 24 ore
consecutive, il datore di lavoro non consenta il cumulo con il riposo
giornaliero, e cioè non aver concesso le 35 ore di riposo complessivo.
Va inoltre
sottolineata la possibilità, da parte della contrattazione collettiva, di
individuare delle deroghe all’obbligo di concessione del riposo settimanale
(fermo restando l’obbligo, ove possibile, del riposo compensativo) che
condizionano pertanto il campo di applicazione della fattispecie sanzionatoria.
Sarà quindi necessario, prima di procedere a sanzionare il mancato rispetto
della previsione normativa, verificare l’esistenza di eventuali deroghe
introdotte dalla contrattazione collettiva, anche ove quest’ultima sia
intervenuta prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del
2003, ma abbia dettato disposizioni coerenti e compatibili con quanto previsto
dal medesimo decreto..
Va infine
rilevato che integra una ulteriore e diversa previsione sanzionatoria la
coincidenza del riposo settimanale con la domenica giacché, pur concedendo il
riposo settimanale, il datore di lavoro sarà soggetto a sanzione ove non
ricorrano le ipotesi di cui all’art. 9, comma 2 o 3.
Sotto il
profilo sanzionatorio, la violazione della mancata concessione del riposo
giornaliero e/o settimanale è punita con la sanzione amministrativa da euro
105,00 a euro 630,00.
A tal
proposito si rileva che la previsione normativa, pur non commisurata al numero
delle giornate e dei lavoratori, trova applicazione con riferimento alla
singola condotta datoriale che comunque si sostanzia nel non consentire i
periodi di riposo a ciascun lavoratore coinvolto ed in relazione a ciascun
periodo considerato (giorno o settimana). Ne consegue che, in tali ipotesi,
vadano applicate tante sanzioni quanti sono i lavoratori interessati ed i
riposi giornalieri o settimanali non fruiti, fermo restando quanto stabilito
dall’art. 8, comma 1, L. n. 689 del 1981.
Va infine
rilevato che, in tale fattispecie, non trova applicazione l’ipotesi di cui all’articolo
8, comma 2, della L. n. 689/1981, concernente la continuazione nell’ambito
delle violazioni amministrative, in quanto tale previsione è riferita alle sole
violazioni “in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria” e la
disciplina sull’orario di lavoro non rientra in tale materia.
Per tale
violazione non trova applicazione l’istituto della diffida di cui all’art. 13
del decreto legislativo n. 124 del 2004.
Da ultimo si
ritiene opportuno richiamare l’attenzione sulla applicabilità delle sanzioni
relative al rispetto degli obblighi in materia di riposo settimanale anche ai
dirigenti e al personale direttivo, alla manodopera familiare, ai lavoratori
del settore liturgico e ai lavoratori che operano a domicilio o in regime di
telelavoro (ex art. 17, comma 5, decreto legislativo n. 66 del 2003).
16. Ferie
annuali
La
disciplina in materia di ferie è, innanzitutto, regolata dall’art. 36, comma 3,
della Costituzione, che tutela il diritto del lavoratore ad un periodo di ferie
annuali retribuite cui non può rinunciare.
L’art. 2109,
comma 2, del Codice Civile dispone poi che la durata delle ferie è fissata
dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi e secondo equità; che il
momento di godimento delle ferie è stabilita dal datore di lavoro che deve tenere
conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore; che il
periodo feriale deve essere possibilmente continuativo; che il periodo feriale
deve essere retribuito.
Oltre a
quanto sopra indicato la Convenzione OIL n. 132 del 24 giugno 1970 (ratificata
con legge 10 aprile 1981, n. 157) prevede un periodo di ferie minimo di tre
settimane di cui due da godere ininterrottamente. Inoltre, dispone che la fruizione del periodo bisettimanale
“dovrà essere accordata e usufruita entro il termine di un anno al massimo, e
il resto del congedo annuale pagato entro il termine di diciotto mesi, al
massimo, a partire dalla fine dell’anno che dà diritto al congedo”. Inoltre,
“ogni parte di congedo annuale che superi un minimo stabilito potrà, con il consenso
della persona impiegata interessata, essere rinviata, per un periodo limitato,
oltre i limiti indicati” in precedenza.
La Corte
costituzionale, con sentenza 19 dicembre 1990, n. 543, ha, fra l’altro,
affermato che il godimento infra-annuale dell’intero periodo di ferie deve
essere contemperato con le esigenze di servizio che hanno carattere di
eccezionalità o comunque con esigenze aziendali serie.
In questo
quadro normativo si è inserito il decreto legislativo 66 del 2003 che ha
disposto che “il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie
retribuite non inferiore a quattro settimane”.
Quindi, nel
caso di fruizione di un periodo feriale consecutivo di quattro settimane, tale
periodo equivale a 28 giorni di calendario.
Con il
decreto legislativo n. 66 del 2003 è stata introdotto per la prima volta in
Italia, in modo espresso, il divieto di monetizzare il periodo di ferie
corrispondente alle quattro settimane previste dalla legge, salvo il caso di
risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell’anno. Per quanto riguarda i
contratti a tempo determinato, di durata inferiore all’anno, è quindi sempre
ammissibile la monetizzazione delle ferie.
L’impossibilità
di sostituire il godimento delle ferie con la corresponsione dell’indennità
sostitutiva è operante per la quota di ferie maturata a partire dal giorno
dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del 2003, ossia dal 29
aprile 2003.
Nei casi di
sospensione del rapporto di lavoro che rendano impossibile fruire delle ferie
secondo il principio della infra-annualità, le stesse dovranno essere godute
nel rispetto del principio dettato dall’art. 2109 cod civ, espressamente
richiamato nell’art. 10 del decreto legislativo n. 66 del 2003, ossia “nel
tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e
degli interessi del prestatore di lavoro”.
Il
legislatore delegato ha, ora, dettato una specifica disciplina sul punto, in
forza della quale si possono distinguere 3 periodi di ferie.
Un primo
periodo, di almeno due settimane, da fruirsi in modo ininterrotto nel corso
dell’anno di maturazione, su richiesta del lavoratore. La richiesta del
lavoratore dovrà essere inquadrata nel rispetto dei principi dell’art. 2109 del
Codice Civile. Pertanto, anche in assenza di norme contrattuali, dovrà essere
formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto
contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di
lavoro.
La
contrattazione collettiva e la specifica disciplina per le categorie di cui all’articolo 2 comma 2 possono
disporre diversamente. Allo scadere di tale termine, se il lavoratore non ha
goduto del periodo feriale di due settimane, il datore sarà passibile di
sanzione.
Il periodo
cui si riferisce la violazione è quello di due settimane. sarà sufficiente che
il lavoratore non abbia goduto anche solo di una parte di detto periodo perché
il datore di lavoro sia considerato soggetto alla sanzione indicata, anche
nelle ipotesi in cui il godimento di detto congedo annuale sia in corso di
godimento in quanto il periodo deve essere fruito nel corso dell’anno di
maturazione e non oltre il termine di esso.
Un secondo
periodo, di due settimane, da fruirsi anche in modo frazionato ma entro 18 mesi
dal termine dell’anno di maturazione, salvi i più ampi periodi di differimento
stabiliti dalla contrattazione collettiva. Nell’ipotesi in cui la
contrattazione stabilisca termini meno ampi per la fruizione di tale periodo
(ad esempio nel settore del pubblico impiego ove il termine è di 6 mesi) il
superamento di questi ultimi, quando sia comunque rispettoso del termine dei 18
mesi, determinerà una violazione esclusivamente contrattuale.
Un terzo
periodo, superiore al minimo di 4 settimane stabilito dal decreto, potrà essere
fruito anche in modo frazionato ma entro il termine stabilito dall’autonomia
privata dal momento della maturazione. Questo ultimo periodo può essere
monetizzato tenendo conto, per il settore del pubblico impiego, delle
previsioni dettate al riguardo.
17.
Violazioni in materia di concessione delle ferie
L’articolo
10 del decreto legislativo n. 66 dle 2003, come modificato dal decreto
legislativo n. 213 del 2004, stabilisce che “fermo restando quanto previsto
dall’articolo 2109 del Codice Civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un
periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale
periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla
specifica disciplina riferita alle categorie di cui all’articolo 2, comma 2, va
goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del
lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due
settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione”.
La
violazione di tale disposizione è punita con la sanzione amministrativa da euro
130,00 a 780,00 per ogni lavoratore e per ciascun periodo cui si riferisca la
violazione.
La
disposizione introduce pertanto i seguenti precetti:
1) obbligo
di concedere un periodo di ferie di due settimane nel corso dell’anno di
maturazione;
2) obbligo
di concedere due settimane consecutive di ferie, se richiesto dal lavoratore,
nel corso dell’anno di maturazione; la richiesta del lavoratore dovrà
intervenire nel rispetto dei principi dell’art. 2109 del Codice Civile
pertanto, anche in assenza di norme contrattuali sul punto, dovrà essere
formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto
contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di
lavoro;
3) fruizione
del restante periodo minimo di due settimane nei 18 mesi successivi all’anno di
maturazione.
La normativa
attribuisce il diritto al riconoscimento di un periodo di ferie di quattro
settimane ma, indipendentemente dalla previsione, la contrattazione collettiva
può ampliare tale periodo, ferma restando ovviamente la sanzionabilità
esclusivamente per la violazione del minimo previsto dalla legge (quattro
settimane).
Ugualmente
la contrattazione collettiva può prevedere un termine massimo di fruizione del
periodo di ferie minore da quello individuato dal Legislatore (18 mesi
successivi all’anno di maturazione), ferma restando la punibilità della sola
violazione di legge.
Va inoltre
rilevato che, in considerazione della dizione che fa esplicito riferimento alle
sole “restanti due settimane”, gli ulteriori giorni di ferie spettanti
eccedenti le quattro settimane – previsti dalla contrattazione collettiva o dal
contratto individuale – possono essere fruiti anche successivamente ai 18 mesi
dalla loro maturazione e possono essere oggetto di monetizzazione, salvo
eventuali specifiche previsioni di legge o di contrattazione collettiva.
Va infine
evidenziato, quanto alle modalità di fruizione delle ferie, che la previsione
normativa stabilisce la possibilità di un intervento in deroga da parte della
contrattazione collettiva. Da ciò deriva, la possibilità per le parti sociali
di introdurre una disciplina modificativa che, sotto un profilo
sanzionatorio,
dia luogo ad una serie di esimenti che determinano la non punibilità della
condotta quando la stessa, pur derogando alle disposizioni di legge, sia
conforme alla previsione contrattuale.
Nei casi di
sospensione del rapporto di lavoro che rendano impossibile fruire delle ferie
secondo il principio della infra-annualità, le stesse dovranno essere godute
nel rispetto del principio dettato dall’art. 2109 del Codice Civile,
espressamente richiamato nell’art. 10 del decreto legislativo n. 66 del 2003,
ossia “nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa
e degli interessi del prestatore di lavoro”: dunque si dovrà evitare ogni
applicazione “automatica” del principio della infra annualità laddove ciò
risulti impossibile o troppo gravoso per l’organizzazione aziendale. Di
conseguenza, anche sotto il profilo sanzionatorio, occorrerà valutare con
attenzione ed equilibrio ogni singola situazione.
Anche per
tali fattispecie si ribadisce l’operatività dell’apparato sanzionatorio nei
confronti del personale di cui all’art. 17, comma 5, del decreto legislativo n.
66 del 2003.
Per tale
violazione non trova applicazione l’istituto della diffida di cui all’art. 13
del decreto legislativo n. 124 del 2004.
Personale
dipendente da aziende autoferrotranviarie. Regime sanzionatorio
(...)
18. Lavoro
notturno
Gli articoli
dall’11 al 15, in materia di lavoro notturno, riprendono in larga misura il
contenuto del decreto legislativo n. 532 del 1999 con il quale era stata data
attuazione alla delega conferita al Governo dall’art. 17, comma 2 della legge
n. 25 del 1999, nonché alla direttiva 93/104.
La normativa
di cui ai citati articoli non si allontana, sostanzialmente, da quella del
1999, ma viene riordinata e razionalizzata.
Definizione
di lavoro e di lavoratore notturno
Il lavoro
notturno è quello prestato in un periodo di almeno sette ore consecutive
comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino.
Quindi il
lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6,
ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione
retributiva prevista dalla contrattazione collettiva.
Il
lavoratore notturno è il lavoratore che svolge, durante il periodo notturno,
almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale;
è, inoltre, lavoratore notturno anche colui che svolge durante il periodo
notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite
dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina collettiva nulla
stabilisca sul punto è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che
svolga, durante il periodo notturno almeno una parte del suo tempo di lavoro
giornaliero, per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno.
Quest’ultimo
criterio di definizione del lavoratore notturno non va a sovrapporsi con il
primo in quanto prende in considerazione lo svolgimento di una prestazione
lavorativa in parte esercitata durante il periodo notturno, a prescindere che
l’attività in oggetto rientri nell’orario normale di lavoro. Quindi, deve
considerarsi lavoratore notturno anche colui che non sia impiegato in modo
normale durante il periodo notturno ma che, nell’arco di un anno, svolga almeno
80 giorni di lavoro notturno. Ad esempio se al lavoratore è richiesto lo
svolgimento, per esigenze contingenti, di prestazioni durante il periodo
notturno, tale prestatore è considerato lavoratore notturno ai fini della
disciplina in oggetto se detto periodo, anche frazionato, abbia durata di
almeno 80 giorni lavorativi nell’arco temporale di un anno solare.
Ove il
limite degli 80 giorni venga superato in ragione del sopravvenire di eventi
eccezionali e straordinari (gravi incidenti agli impianti o nell’esercizio di
particolari servizi, calamità naturali), non potrà configurarsi la fattispecie
in esame.
Il suddetto
limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.
Il
lavoratore, per poter svolgere prestazioni di lavoro notturno, deve esserne
ritenuto idoneo mediante accertamento ad opera delle strutture sanitarie
pubbliche competenti o per il tramite del medico competente.
I lavoratori
notturni, la cui idoneità sia già stata verificata ai sensi della legge
previgente, non devono essere sottoposti ad un nuovo accertamento.
Oltre a
questa iniziale valutazione che deve precedere l’esecuzione di prestazioni di
lavoro notturno, lo stato di salute dei lavvoratori notturni deve essere
periodicamente verificato. La periodicità di tali controlli è individuata dal
legislatore in almeno due anni. I controlli potranno essere più frequenti sia
nel caso in cui il medico competente abbia prescritto una periodicità inferiore
sia nel caso in cui siano mutati i rischi relativi alle lavorazioni cui il
lavoratore è addetto.
Tali
controlli devono essere effettuati dalle competenti strutture sanitarie
pubbliche, o dal medico competente di cui all’articolo 17 del decreto
legislativo n. 626 del 1994. In ogni caso tali controlli devono avvenire a cura
e spese del datore di lavoro.
Limitazioni
al lavoro notturno
L’esecuzione
di prestazioni di lavoro notturno è obbligatoria per i lavoratori idonei fatto
salvi i casi di divieto o di esclusione dall’obbligo di eseguire la
prestazione.
È vietato
adibire al lavoro dalle 24 alle 6 le donne in gestazione dall’accertamento
dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o, comunque,
dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza della fattispecie
generatrice del divieto.
Alcuni
lavoratori hanno facoltà di non prestare lavoro notturno dandone comunicazione,
in forma scritta, al datore di lavoro entro 24 ore precedenti al previsto
inizio della prestazione. Il datore ha facoltà di accettare la comunicazione
del rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto a quello previsto.
L’individuazione
dei requisiti dei lavoratori che determinano l’insorgere della facoltà sono
stabiliti dai contratti collettivi.
Il decreto
prevede, inoltre, che abbiano facoltà di rifiutarsi di prestare lavoro
notturno:
la
lavoratrice subordinata, madre di un figlio di età inferiore di tre anni o,
qualora la stessa non abbia esercitato la facoltà di rifiutare l’esecuzione di
prestazioni di lavoro notturno, il lavoratore padre convivente che sia
anch’esso lavoratore subordinato; l’unico genitore affidatario e convivente di
un minore di età inferiore a 12 anni; coloro che abbiano a loro carico un
soggetto disabile ai sensi della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione
sociale e i diritti delle persone handicappate .
Obblighi di
comunicazione
Il datore di
lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto, annualmente, l’esecuzione di
lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici regolari.
La
comunicazione deve essere effettuata ai servizi ispettivi della DPL competente
e alle organizzazioni sindacali titolari del diritto ad essere consultate al
fine dell’introduzione del lavoro notturno.
Se il
contratto collettivo applicato in azienda disciplina in modo specifico
l’esecuzione di lavoro notturno continuativo oppure compreso in turni periodici
regolari, non sorge l’obbligo di comunicazione.
Durata della prestazione
Ai sensi dell’articolo
13 del D.Lgs. n. 66/2003, per tutti i lavoratori notturni, l’orario non può
superare le 8 ore, in media, nell’arco di 24 ore calcolate dal momento di
inizio dell’esecuzione della prestazione lavorativa.
Tale limite
costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate
pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può
essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa
– salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di
un periodo più ampio sul quale calcolare detto limite – considerato che il
Legislatore ha in più occasioni adoperato l’arco settimanale quale parametro
per la quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli
articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di orario normale di lavoro e
orario medio).
Per il
settore della panificazione industriale la media su cui calcolare il limite di
durata della prestazione lavorativa è riferito, comunque, alla settimana
lavorativa e, pertanto, la norma si configura quale limite alla contrattazione
collettiva di estendere ulteriormente il periodo di riferimento sul quale
calcolare l’orario di lavoro.
Inoltre,
conformemente alla direttiva 93/104/CE, per alcune lavorazioni che comportano
rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite orario è
di otto ore nel corso di ogni periodo di 24 ore. In questo caso il limite è
fisso e non va considerato come media.
L’individuazione
di tali lavorazioni è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle
politiche sociali – di concerto col Ministro per la funzione pubblica per
quanto riguarda, in modo non esclusivo, i pubblici dipendenti – previa
consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali dei lavoratori e dei
datori di lavoro.
Per le
materie di esclusivo interesse dei pubblici dipendenti il decreto è adottato
dal ministro della funzione pubblica di concerto col Ministro del lavoro e
delle politiche sociali.
La durata
massima della settimana lavorativa non potrà, quindi, superare le 48 ore
comprensive delle ore di straordinario, tenendo presente che queste ultime non
potranno essere superiori, in assenza di determinazioni collettive, di 250 ore
annue.
Nel computo
della media su cui calcolare il limite delle 8 ore non si deve tener conto del
periodo di riposo minimo settimanale
quando questo ricade nel periodo di riferimento stabilito dai contratti
collettivi.
Trasferimento
al lavoro diurno
Qualora
sopraggiungano condizioni di salute che comportino l’inidoneità alla
prestazione di lavoro notturno il lavoratore può essere trasferito al lavoro
diurno.
La
sopraggiunta inidoneità deve essere accertata dalle competenti strutture
sanitarie pubbliche o dal medico competente.
Il decreto
dispone che il trasferimento al lavoro notturno è subordinato alla esistenza e
alla disponibilità di un posto di lavoro la cui esecuzione sia relativa a
mansioni equivalenti a quelle svolte. In mancanza di tali condizioni il datore
di lavoro ha facoltà di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo
oggettivo.
Alla
contrattazione collettiva è attribuita la facoltà di definire le modalità di
applicazione delle disposizioni illustrate in materia di trasferimento al
lavoro diurno e di individuare le soluzioni per le ipotesi in cui manchino le
condizioni per l’assegnazione al lavoro diurno del prestatore di lavoro
notturno.
Quindi,
mentre il decreto legislativo n. 532 del 1999 stabiliva che il trasferimento al
lavoro diurno o ad altra mansione era automatico, con la nuova disciplina tale
trasferimento è vincolato alla disponibilità in azienda, secondo le modalità
stabilite dalla contrattazione collettiva che potrà ricercare anche soluzioni
alternative in caso di inesistenza di altro posto di lavoro disponibile.
19.
Violazioni in materia di lavoro notturno
Divieto di
lavoro notturno per lavoratrici madri
L’art. 11,
comma 2, del decreto legislativo n. 66 dle 2003 fa espresso divieto di adibire
le donne al lavoro notturno, dalle 24 alle 6, dall’accertamento dello stato di
gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino. La violazione di
tale disposizione è punita con l’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda
da euro 516,00 a euro 2582,00. Al riguardo è possibile evidenziare che per la
violazione della previsione normativa è necessaria la piena consapevolezza, da
parte del datore di lavoro, dello status della lavoratrice che presuppone una
comunicazione in tale senso da parte della stessa ovvero la conoscenza aliunde
da parte del datore di lavoro della condizione soggettiva che fa scattare il
divieto.
Quanto al
procedimento di estinzione della violazione, è applicabile il procedimento
prescrittivo di cui al D.Lgs. n. 758/1994, come modificato dall’art. 15 del
decreto legislativo n. 124 del 2004 in quanto in riferimento alla condotta,
sebbene ormai esaurita, può essere impartita la c.d. prescrizione ora per
allora che consente l’estensione del beneficio anche nelle ipotesi di
reintegrazione fittizia dell’ordine giuridico violato.
L’esenzione
dal lavoro notturno per altre categorie di lavoratori
Lo stesso
art. 11, c. 2, stabilisce che non sono obbligati a prestare lavoro notturno:
- la
lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa,
il lavoratore padre convivente con la stessa;
- la
lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio
convivente di età inferiore a dodici anni;
- la
lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai
sensi della legge n. 104 del 1992 e successive modificazioni.
In
riferimento a tali categorie di lavoratori è applicata la medesima sanzione
dell’arresto da due a quattro mesi o dell’ammenda da euro 516,00 a euro
2582,00, qualora siano “adibite al lavoro notturno nonostante il loro dissenso
espresso in forma scritta e comunicato al datore di lavoro entro 24 ore
anteriori al previsto inizio della prestazione”.
Tale
formulazione prevede un vero e proprio diritto potestativo in capo al
lavoratore, il quale è titolare di un diritto di resistenza all’impiego durante
la fascia di orario notturna. Anche in tale ipotesi l’estinzione della
violazione può avvenire attraverso l’emanazione di una prescrizione ora per
allora ai sensi dell’art. 15 del decreto legislativo n. 124 del 2004.
Controlli
preventivi e periodici sui lavoratori notturni
L’art. 14,
comma 1, del decreto legislativo n. 66 del 2003, come modificato dall’art. 1,
comma 1 lett. e), del decreto legislativo n. 213 del 2004, stabilisce che “la
valutazione dello stato di salute dei lavoratori notturni deve avvenire a cura
e a spese del datore di lavoro, o per il tramite delle competenti strutture
sanitarie pubbliche di cui all’articolo 11 o per il tramite del medico
competente di cui all’articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e
successive modificazioni, attraverso controlli preventivi e periodici, almeno
ogni due anni, volti a verificare l’assenza di controindicazioni al lavoro
notturno a cui sono adibiti i lavoratori stessi”.
La
violazione di tale obbligo è punita con la sanzione dell’arresto da tre a sei
mesi o con l’ammenda da euro 1.549,00 a euro 4.131,00.
Tale
previsione, sebbene punisca l’omesso controllo medico biennale, non pregiudica
comunque la possibilità di assicurare una migliore sorveglianza sanitaria per i
lavoratori notturni, rendendo comunque possibile da parte della contrattazione
collettiva l’introduzione di disposizioni di miglior favore volte a ridurre
l’intervallo temporale fra le visite periodiche ferma restando, chiaramente, la
sanzionabilità del superamento del solo limite biennale posto dalla norma.
Per quanto
attiene la struttura dell’illecito, la fattispecie presuppone una condotta
omissiva di carattere permanente che perdura fino a quando il datore di lavoro
non sottoponga i lavoratori agli accertamenti obbligatori, nonostante che il
fatto costituente reato si sia perfezionato in tutti i suoi elementi alla
scadenza del biennio.
In tal caso
trova piena applicazione la procedura estintiva del reato mediante prescrizione
obbligatoria, volta evidentemente ad impartire un termine ragionevole entro il
quale il datore di lavoro sia tenuto ad effettuare la sorveglianza sanitaria
omessa.
Si segnala
infine che le violazioni di natura penale relative al lavoro notturno delle lavoratrici
madri e delle altre categorie di lavoratori di cui all’art. 11, nonché alla
preventiva e periodica sorveglianza sanitaria, trovano applicazione anche nei
confronti del personale individuato nell’art. 17, comma 5, del decreto
legislativo n. 66 del 2003.
Superamento
orario di lavoro notturno
L’art. 13
del decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce che “l’orario di lavoro dei
lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro
ore, salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali,
di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il
suddetto limite”.
La
violazione di tale previsione comporta l’applicazione della sanzione
amministrativa da euro 51,00 a euro 154,00, per ogni giorno e per ogni
lavoratore adibito al lavoro notturno oltre i limiti previsti.
L’illecito
amministrativo si realizza quando il lavoratore abbia lavorato per più di 8 ore
in media nelle 24. In altre parole il lavoratore non può superare il rapporto
medio di 1/3 fra le ore lavorate e le ore non lavorate nell’ambito di un arco
temporale che, sebbene la norma non lo preveda espressamente, può essere
individuato nella settimana lavorativa, ovvero in un più ampio periodo di
riferimento stabilito dalla contrattazione collettiva.
Sotto il
profilo della quantificazione della sanzione, applicata con riferimento ad
“ogni giorno e per ogni lavoratore adibito al lavoro notturno oltre i limiti
previsti”, non sembra possibile, anche sulla base dell’orientamento
giurisprudenziale prevalente, applicare in tali ipotesi l’articolo 8, comma 1,
della legge n. 689 del 1981 che prevede l’istituto del concorso formale.
In tal caso,
infatti, si è in presenza di un c.d. precetto a struttura pluralistica per il
quale il legislatore ha ritenuto opportuno
commisurare la sanzione al numero dei lavoratori ed alle giornate
lavorative e l’eventuale applicazione della l’istituto del concorso formale
vanificherebbe in sostanza la volontà del legislatore stesso.
Per tale
violazione trova applicazione l’istituto della diffida di cui all’art. 13 del
decreto legislativo n. 124 del 2004.
20. Deroghe
alla disciplina in materia di riposo giornaliero, pause, lavoro notturno,
durata massima settimanale.
La norma
recepisce una serie di disposizioni contenute nella direttiva 93/104/CE come
modificata dalla direttiva 2000/34/CE.
Si tratta di
una serie di deroghe alle norme contenute nello stesso decreto legislativo in
materia di riposo giornaliero (art. 7), pause (art. 8), modalità di organizzazione
del lavoro notturno (art. 12), durata del lavoro notturno (art. 13).
La
derogabilità è affidata alla previsione dei contratti collettivi nazionali
(comma 1) ovvero, ove abilitata da questi ultimi, anche alla contrattazione
collettiva di secondo livello.
In mancanza
di contrattazione, ovvero qualora non risultasse possibile definire alcun
accordo, è previsto che le deroghe possano essere adottate con decreto del
Ministero del lavoro, su richiesta delle OO.SS. nazionali di categoria
comparativamente più rappresentative, ivi compresa la eventuale previsione di
un periodo di riferimento più ampio di un quadrimestre, ma contenuto nel
periodo di sei mesi, ai fini del calcolo della media della durata massima
dell’orario settimanale.
Sempre
mediante decreto del Ministero del lavoro e alle condizioni di cui al comma 2
dell’articolo in esame, si può derogare alla disciplina del riposo giornaliero
nelle ipotesi di cui alle lettere a) e b) del comma 3.
Infine,
sempre nel rispetto dei principi generali di protezione della salute e della
sicurezza dei lavoratori, viene previsto (comma 5) che gli artt. 3 (orario
normale di lavoro), 4 (durata massima dell’orario di lavoro), 5 (lavoro
straordinario), 7 (riposo giornaliero), 8 (pause), 12 (modalità di
organizzazione del lavoro notturno) e 13 (durata del lavoro notturno) non
trovano applicazione nei confronti dei lavoratori e delle prestazioni di cui alle lettere a),
b), c) e d) del richiamato comma 5 che, essendo delle esemplificazioni, come
lascia intendere l’espressione “in particolare”, non sono ipotesi tassative.
Relativamente
alla categoria di lavoratori di cui alla lettera a) del citato comma 5
(dirigente, personale direttivo aziendale o di altre persone aventi potere di
decisione autonomo) non può sottacersi – come del resto già fatto presente con
circolare n. 10 del 15/2/2000 – che nell’ampia formulazione della norma trovano
ingresso nuove figure professionali che, sebbene prive di potere gerarchico,
conservano, nel disimpegno delle loro attribuzioni, ampia possibilità di
iniziativa, di discrezionalità e di determinazione autonoma sul proprio tempo
di lavoro.
Più in
generale, si ritiene, poi, che la deroga al limite delle 48 ore settimanali
riguardi anche quelle attività le cui peculiarità non consentono di predeterminarne
la durata.
Si tratta di
attività nelle quali la professionalità dei lavoratori, dotati di competenze
specialistiche, è condizione essenziale per il funzionamento del servizio, di
modo che l’attività del personale impegnato, talora anche a ragione della
continuità del servizio offerto, reso in alcuni casi anche all’esterno
dell’azienda, si concreta in una serie di interventi che non consentono la
pianificabilità, in termini di tempo, del lavoro necessario al funzionamento
del servizio.
21. I lavoratori
a bordo di navi da pesca marittima
(...)
22. L’orario
di lavoro nella P.A.
(...)
23. Sanzioni
In base al
principio di irretroattività delle leggi che prevedono sanzioni amministrative
di cui all’art. 1 della legge n. 689 del 1981, alle violazioni riferite al
periodo antecedente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n.
213 del 2004, sarà applicata la sanzione prevista dalla precedente disciplina,
anche se l’accertamento avvenga in data successiva e anche nel caso di
emissione di ordinanza ingiunzione
A tal
riguardo è peraltro possibile citare quanto dettato dalla sentenza della
Suprema Corte n. 16699 del 26 novembre 2002, la quale stabilisce che “in
materia di illeciti amministrativi, l’adozione del principio di legalità, di
irretroattività e di divieto di applicazione dell’analogia, risultante
dall’art. 1 della L. n. 689/1981, comporta l’assoggettamento della condotta
considerata alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente
inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole”; inoltre la
medesima pronuncia chiarisce che la nuova disciplina non opera “limitatamente
ai rapporti non esauriti, per essere ancora in corso i relativi procedimenti,
né in relazione alle violazioni commesse precedentemente, ma per le quali
l’ordinanza ingiunzione è stata emessa dopo l’entrata in vigore della legge,
atteso che l’ordinanza ingiunzione non è esercizio di un potere e provvedimento
amministrativo costitutivo, ma atto puramente esecutivo, preordinato soltanto
alla riscossione di un credito già sorto per effetto della violazione
commessa”.
Per quanto
riguarda le sanzioni di carattere penale si applicano i principi in materia.
Il decreto
legislativo n. 213 del 2004 ha confermato la natura amministrativa o penale che
già apparteneva alle sanzioni precedentemente in vigore, tenendo conto del
principio contenuto nell’ultimo periodo dell’articolo 2, comma 1 lett. c),
della legge delega n. 39 del 1° marzo 2002, n. 39, il quale afferma che “in
ogni caso saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già
comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari
offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti
legislativi”.
24.
Abrogazioni
Le disposizioni di legge e
di regolamento in materia di orario di lavoro sono abrogate salve quelle
espressamente richiamate dal decreto legislativo n. 66 del 2003. In particolare
è da ritenersi abrogato l’art. 12 del Rd
10 settembre 1923, n. 1955, relativo all’obbligo di esporre in luogo
accessibile a tutti i lavoratori, l’orario di lavoro, ed il Decreto
ministeriale 3 agosto 1999, pubblicato sulla G.U. del 10 agosto 1999, n. 186,
perché emanato in attuazione dell’art. 1, comma 2 bis, della legge n. 409 del
1998, oramai abrogata.