LAVORI PUBBLICI - POTERE DISCREZIONALE DI DISAMINA E VALUTAZIONE IN CAPO ALLA STAZIONE APPALTANTE DEI REATI CHE INCIDONO SULLA MORALITA’ PROFESSIONALE DEI PARTECIPANTI
(Consiglio di Stato, Sezione V del 31 gennaio 2006, n. 349)
La disposizione dell’articolo 75 del D.P.R. 554/99 recante “Cause di
esclusione dalle gare di appalto per l’esecuzione di lavori pubblici”, come
correttamente osservato dall’Autorità per la Vigilanza sui lavori Pubblici
nella Determinazione n.16/23 del 5 dicembre 2001, è
molto più articolata e complessa di quella utilizzata ai fini della
qualificazione delle imprese, che fa riferimento soltanto ad “inesistenza di
sentenze definitive di condanna passate in giudicato ovvero di sentenze di
applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 del codice di
procedura penale a carico del titolare, del legale rappresentante,
dell’amministratore o del direttore tecnico per reati che incidono sulla
moralità professionale” (art. 17, comma 1, lett.c),
del D.P.R. 34/2000).
Per il Consiglio di Stato, sezione IV il 18 maggio 2004 con sentenza n.
3185, con riferimento all’art. 12 D.L.vo 17 marzo 1995 n. 157, ma con
argomentazioni estensibili al disposto dell’art. 75 D.P.R. n. 554/1999, che la
lett. b) di detto art. 12 - secondo cui sono esclusi dalla partecipazione alla
gara i concorrenti nei cui confronti sia stata emessa sentenza di condanna
passata in giudicato ovvero sentenza di applicazione della pena su richiesta ai
sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.,
per qualsiasi reato che incide sulla loro moralità professionale o per delitti
finanziari - per il modo in cui è formulata, che collega l’esclusione alla
generalità delle trasgressioni che incidono sulla moralità professionale o ai
delitti finanziari, è qualificante la commissione di reati di una certa natura
sotto l’aspetto sostanziale, nel senso che si è voluto evitare l’affidamento
del servizio a coloro che abbiano commesso reati lesivi degli stessi interessi
collettivi che, nelle veste di aggiudicatari, sarebbero chiamati a tutelare (cfr. altresì Cons. Stato, sez. V,
27/03/2000, n. 1770).
La mancanza di parametri fissi e predeterminati e la genericità della
prescrizione normativa lascia un ampio spazio di valutazione discrezionale alla
stazione appaltante, e consente alla stessa margini di flessibilità operativa
al fine di un equo apprezzamento delle singole concrete fattispecie, con
considerazione di tutti gli elementi delle stesse che possono incidere sulla
fiducia contrattuale, quali, a titolo esemplificativo, l’elemento psicologico,
la gravità del fatto, il tempo trascorso dalla condanna, le eventuali recidive et similia.
E’ chiaro, infatti, che la norma attribuisce, in mancanza di apposita
specificazione delle norme di parte speciale, un ampio margine di apprezzamento
alle amministrazioni appaltanti, cui spetta decidere quali imprese escludere
dalle procedure di affidamento degli appalti, in conseguenza di fatti
costituenti reato (anche di non rilevante entità, come dimostra il richiamo
all’istituto dell’applicazione della pena su richiesta) che siano da esse
ritenuti indici di inaffidabilità morale o professionale; deve essere
condiviso, infatti, il rilievo in base al quale il concetto di (im)moralità professionale presuppone la realizzazione di un
fatto di reato idoneo a manifestare una radicale e sicura contraddizione coi
principi deontologici della professione.
Invero, la stessa indeterminatezza dei concetti di affidabilità morale
e professionale a cui è legato l’effetto espulsivo comporta necessariamente l’esercizio,
da parte dell’Amministrazione aggiudicante, di un potere discrezionale di
valutazione dei reati ascritti agli interessati. Ciò tanto più se si considera
che, nell’ipotesi di cui all’art. 444 c.p.p.,
l’applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) non
comporta necessariamente l’affermazione della responsabilità del reo. Nello
stesso senso deve essere interpretato l’art. 24, comma 1, lett. c) della
Direttiva 93/37/CEE il quale fa riferimento a “qualsiasi reato che incida sulla
sua moralità professionale”. Da ciò consegue, altresì, che non è sufficiente
l’accertamento in capo al soggetto interessato di una condanna penale, giacché
il dettato normativo richiede una concreta valutazione da parte
dell’amministrazione rivolta alla verifica, attraverso un apprezzamento
discrezionale che deve essere adeguatamente motivato, dell’incidenza della
condanna sul vincolo fiduciario da instaurare attraverso il contratto con
l’Amministrazione stessa, senza che tale apprezzamento possa ritenersi compiuto
per implicito attraverso la semplice enunciazione delle fattispecie di reato
alle quali si riferisce la condanna.
Inoltre, quando si deve valutare l’affidabilità o la moralità
professionale di un soggetto non può prescindersi
anche dalla considerazione della sua professionalità per come nel tempo si è
manifestata.
Ne discende, pertanto, che i margini di insindacabilità
attribuiti all’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione
appaltante di valutare una condanna penale, ai fini dell’esclusione di un
concorrente da una gara d’appalto, non consentono, comunque, al pubblico
committente di prescindere dal dare contezza di avere effettuato la suddetta
disamina e dal rendere conoscibili gli elementi posti alla base dell’eventuale
definitiva determinazione espulsiva (Cons. Stato,
sez. V, 28 aprile 2003, n. 2129).
E’, peraltro, corretto sostenere che ciò debba avvenire avendo riguardo
al tipo di rapporto che con un determinato soggetto deve essere instaurato,
alla gravità del reato in relazione alla tipologia del rapporto ed alle
condizioni che in concreto inducono a ritenere che un vincolo contrattuale con
quel soggetto non debba essere costituito.
Detto diversamente, l’esercizio della predetta potestà dev’essere motivato e, siccome la motivazione, ai sensi
dell’art. 3 della Legge 7.8.1990, n. 241, è fondata sulle risultanze
dell’istruttoria, cioè su un accertamento di fatto concreto, dette valutazioni
non andranno espresse su categorie astratte di reati, ma tenendo conto delle
circostanze in cui un reato è stato commesso, per dedurne un giudizio di
affidabilità o inaffidabilità.
La norma perciò non richiede apprezzamenti assoluti del tipo “la
commissione di tale reato è (o non è) indice di inaffidabilità morale o
professionale”, ma un’accurata indagine sul singolo fatto, giudicato come
costituente reato, su cui si fonderà il giudizio, richiesto
all’amministrazione.
. . . omissis. . .
FATTO
Con
sentenza del TAR della Basilicata n. 806/2004, veniva accolto il ricorso
(iscritto al nr. 233/2004 R.G.)
proposto dalla ditta C.P. di S.D. per l’annullamento della mancata
aggiudicazione definitiva dei lavori di ristrutturazione e adeguamento del
convento dei Cappuccini; del verbale di riesame della gara, redatto dalla
commissione in data 23 aprile
La
sentenza è stata appellata dal Comune di G.N. che contrasta le argomentazioni
del giudice di primo grado.
La
CT. non si è costituita in giudizio.
Alla
pubblica udienza del 21 giugno 2005, il ricorso veniva trattenuto per la
decisione.
DIRITTO
L’appello
è infondato e deve essere respinto.
1.
La C.P. di S.D. ha partecipato alla gara, bandita dal Comune di G.N., per i lavori di ristrutturazione e adeguamento del
Convento dei Cappuccini. La compagine sociale risultava aggiudicataria, in via
provvisoria, della gara con il ribasso del 18,18%. Tuttavia, con il
provvedimento gravato in primo grado l’Amministrazione ha escluso di poter
procedere alla definitiva aggiudicazione in suo favore dell’appalto perché, in
occasione della verifica dei requisiti relativi alla moralità professionale di
cui all’art. 75 D.P.R. n. 554 del
3.
E’ necessario, a questo punto, richiamare l’indirizzo giurisprudenziale ormai
consolidato secondo il quale (per una recente applicazione cfr.
Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2005 n. 32) in sede
di gara per l’aggiudicazione dei contratti con
Invero,
il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure di gara o di concorso
risponde, da un lato, ad esigenze pratiche di certezza e celerità, dall’altro,
e soprattutto, alla necessità di garantire l’imparzialità dell’azione
amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti. Soltanto nel varco
aperto da un’equivoca formulazione della lettera di invito o del bando di gara
può esservi spazio per un’interpretazione che consenta la più ampia ammissione
degli aspiranti. Pertanto, l’Amministrazione è tenuta al rispetto della
normativa alla quale si è essa stessa autovincolata,
per avere emanato il bando di gara sulla convinzione della idoneità delle
stesse prescrizioni a perseguire la finalità della migliore scelta possibile
del contraente in relazione all’oggetto dell’appalto. Del resto la rigorosa
previsione delle clausole in ordine al possesso dei requisiti per la
partecipazione ai pubblici appalti è controbilanciata dall’interesse della
stessa Pubblica Amministrazione a circoscrivere la gara alle sole imprese
munite dei necessari presupposti funzionali all’esecuzione delle obbligazioni
contrattuali.
Merita
di essere ricordato, quanto alla gara oggetto di impugnativa, che non viene in
rilievo il profilo della puntuale osservanza delle prescrizioni della lex specialis nella prospettazione offerta dall’odierno appellante. Infatti,
come sarà fra breve precisato, anche la (doverosa) applicazione delle regole
che disciplinano le procedure comparative di offerenti o di concorrenti
richiede, a fronte di concetti giuridici indeterminati (quali quelli che ci
occupano), l’esternazione della motivazione (con particolare riferimento
all’iter logico - giuridico seguito dall’Amministrazione) che sorregge la
scelta compiuta.
4.
Ciò premesso, merita di essere ricordato che l’articolo 75 (Cause di esclusione
dalle gare di appalto per l’esecuzione di lavori pubblici) del Decreto del
Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554 - Regolamento di
attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994,
n. 109 e successive modificazioni – prevede che (comma 1) “sono esclusi dalla
partecipazione alle procedure di affidamento degli appalti e delle concessioni
e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: […] c) nei cui
confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, oppure
di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 del codice
di procedura penale, per reati che incidono sull’affidabilità morale e
professionale; il divieto opera se la sentenza è stata emessa nei confronti del
titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; del socio
o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo o in
accomandita semplice; degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o
del direttore tecnico se si tratta di altro tipo di società o consorzio. In
ogni caso il divieto opera anche nei confronti dei soggetti cessati dalla
carica nel triennio antecedente la data di pubblicazione del bando di gara,
qualora l’impresa non dimostri di aver adottato atti o misure di completa
dissociazione della condotta penalmente sanzionata […]”.
Tale
disposizione, come correttamente osservato dall’Autorità per la Vigilanza sui
lavori Pubblici nella Determinazione n. 16/23 del 5 dicembre 2001, è molto più
articolata e complessa di quella utilizzata ai fini della qualificazione delle
imprese, che fa riferimento soltanto ad “inesistenza di sentenze definitive di
condanna passate in giudicato ovvero di sentenze di applicazione della pena su
richiesta ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale a carico del
titolare, del legale rappresentante, dell’amministratore o del direttore
tecnico per reati che incidono sulla moralità professionale” (art. 17, comma 1,
lett. c), del D.P.R. 34/2000).
Questo
Consesso ha di recente chiarito (Consiglio di Stato, IV, 18 maggio 2004 n.
3185), con riferimento all’art. 12 D.L.vo 17 marzo 1995 n. 157, ma con
argomentazioni estensibili al disposto dell’art. 75 D.P.R. n. 554/1999, che la
lett. b) di detto art. 12 - secondo cui sono esclusi dalla partecipazione alla
gara i concorrenti nei cui confronti sia stata emessa sentenza di condanna
passata in giudicato ovvero sentenza di applicazione della pena su richiesta ai
sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.,
per qualsiasi reato che incide sulla loro moralità professionale o per delitti
finanziari - per il modo in cui è formulata, che collega l’esclusione alla
generalità delle trasgressioni che incidono sulla moralità professionale o ai
delitti finanziari, sta a significare che nella considerazione del Legislatore
è qualificante la commissione di reati di una certa natura sotto l’aspetto
sostanziale, nel senso che si è voluto evitare l’affidamento del servizio a
coloro che abbiano commesso reati lesivi degli stessi interessi collettivi che,
nelle veste di aggiudicatari, sarebbero chiamati a tutelare (cfr. altresì Cons. Stato, sez. V,
27/03/2000, n. 1770).
Orbene,
la mancanza di parametri fissi e predeterminati e la genericità della
prescrizione normativa lascia un ampio spazio di valutazione discrezionale alla
stazione appaltante, e consente alla stessa margini di flessibilità operativa
al fine di un equo apprezzamento delle singole concrete fattispecie, con
considerazione di tutti gli elementi delle stesse che possono incidere sulla
fiducia contrattuale, quali, a titolo esemplificativo, l’elemento psicologico,
la gravità del fatto, il tempo trascorso dalla condanna, le eventuali recidive et similia.
E’
chiaro, infatti, che la norma attribuisce, in mancanza di apposita
specificazione delle norme incriminatici di parte speciale, un ampio margine di
apprezzamento alle amministrazioni appaltanti, cui spetta decidere quali
imprese escludere dalle procedure di affidamento degli appalti, in conseguenza
di fatti costituenti reato (anche di non rilevante entità, come dimostra il
richiamo all’istituto dell’applicazione della pena su richiesta) che siano da
esse ritenuti indici di inaffidabilità morale o professionale; deve essere
condiviso, infatti, il rilievo in base al quale il concetto di (im)moralità professionale presuppone la realizzazione di un
fatto di reato idoneo a manifestare una radicale e sicura contraddizione coi
principi deontologici della professione (Cons. Stato,
sez. V, 01/03/2003, n. 1145; Cons. Stato, sez. V,
25/11/2002, n. 6482; Cons. Stato, sez. V, 18/10/2001,
n. 5517, che ha ritenuto legittima la scelta dell’amministrazione appaltante di
non escludere da una gara d’appalto il concorrente condannato con decreto
penale per un reato contravvenzionale omissivo e di
pericolo, a struttura normalmente colposa, quale quello previsto dall’art. 677
c.p. - omissioni di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina - ove
dalla condotta per la quale è stato condannato non emergano elementi
particolarmente sintomatici di una scarsa moralità professionale).
Invero,
la stessa indeterminatezza dei concetti di affidabilità morale e professionale
a cui è legato l’effetto espulsivo comporta necessariamente l’esercizio, da
parte dell’Amministrazione aggiudicante, di un potere discrezionale di
valutazione dei reati ascritti agli interessati. Ciò tanto più se si considera
che, nell’ipotesi di cui all’art. 444 c.p.p.,
l’applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) non
comporta necessariamente l’affermazione della responsabilità del reo.
Nello
stesso senso deve essere interpretato l’art. 24, comma 1, lett. c) della
Direttiva 93/37/CEE il quale fa riferimento a “qualsiasi reato che incida sulla
sua moralità professionale”.
Da
ciò consegue, altresì, che non è sufficiente l’accertamento in capo al soggetto
interessato di una condanna penale, giacché il dettato normativo richiede una
concreta valutazione da parte dell’amministrazione rivolta alla verifica,
attraverso un apprezzamento discrezionale che deve essere adeguatamente
motivato, dell’incidenza della condanna sul vincolo fiduciario da instaurare
attraverso il contratto con l’Amministrazione stessa, senza che tale
apprezzamento possa ritenersi compiuto per implicito attraverso la semplice
enunciazione delle fattispecie di reato alle quali si riferisce
E’,
peraltro, corretto sostenere che ciò debba avvenire avendo riguardo al tipo di
rapporto che con un determinato soggetto deve essere instaurato, alla gravità
del reato in relazione alla tipologia del rapporto ed alle condizioni che in
concreto inducono a ritenere che un vincolo contrattuale con quel soggetto non
debba essere costituito. Detto diversamente, l’esercizio della predetta potestà
dev’essere motivato e, siccome la motivazione, ai
sensi dell’art. 3 della Legge 7.8.1990, n. 241, è fondata sulle risultanze
dell’istruttoria, cioè su un accertamento di fatto concreto, dette valutazioni
non andranno espresse su categorie astratte di reati, ma tenendo conto delle
circostanze in cui un reato è stato commesso, per dedurne un giudizio di
affidabilità o inaffidabilità. La norma perciò non richiede apprezzamenti
assoluti del tipo “la commissione di tale reato è (o non è) indice di
inaffidabilità morale o professionale”, ma un’accurata indagine sul singolo
fatto, giudicato come costituente reato, su cui si fonderà il giudizio,
richiesto all’amministrazione.
In
tale senso già si era pronunciata la giurisprudenza, sia pure con riferimento
alla normativa pregressa di analogo tenore (art.
Ne
consegue che, nel caso di specie e come correttamente rilevato dal giudice di
primo grado, l’amministrazione appellante (alla quale era demandato il compito
di apprezzare se eventuali condanne potessero implicare un vulnus alla moralità
professionale del soggetto partecipante alla gara), oltre ad indicare la
condanna subita dal legale rappresentante della società ricorrente in primo
grado, avrebbe dovuto, esercitando il ridetto potere discrezionale conferitole
dalla legge, espressamente valutare l’incidenza in concreto della condanna
medesima sul piano dell’affidamento morale e professionale dell’impresa
interessata (attraverso la disamina di alcuni rilevanti connotati concreti
della fattispecie penale chiamata in causa) e solo nel caso di un esito
negativo di tale esame, procedere all’esclusione della società.
In
considerazione dei tratti distintivi della fattispecie in esame, dunque, non risulta
legittima l’esclusione senza che sia stata data adeguata contezza di un (previo
prudente) apprezzamento delle ragioni che, nel concreto, precludevano
l’eventuale affidamento del servizio in ragione del precedente penale.
5.
La sentenza gravata merita conferma anche nella parte in cui ha rigettato
l’istanza risarcitoria proposta dalla ricorrente in
primo grado e riproposta in sede d’appello.
Il
Giudice di primo grado osservò correttamente che non era in quel momento
prevedibile l’esito del riesame della posizione della concorrente da parte
della stazione appaltante
Inoltre,
costituisce ius receptum il
principio secondo il quale la domanda risarcitoria
non sostenuta dalle allegazioni necessarie all’accertamento della
responsabilità dell’amministrazione risulta proposta in modo generico e,
quindi, va respinta; grava, infatti, sul danneggiato l’onere di provare, ai
sensi dell’art. 2697 c.c., tutti gli elementi
costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito (Cons. Stato, Sez. V, 25/01/2002,
n. 416; Cons. Stato, Sez.
V, 06/08/2001, n. 4239; Cons. Stato, Sez.V, 19 Aprile 2005, n. 1792). Invero, il risarcimento
del danno non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale ma
richiede la positiva verifica di tutti i requisiti previsti dalla legge: oltre
alla lesione della situazione soggettiva d’interesse tutelata dall’ordinamento,
è indispensabile che sia accertata la colpa dell’amministrazione, e l’esistenza
di un danno al patrimonio e che sussista un nesso causale tra la condotta
lesiva ed il danno subito
Nel
caso in esame, la richiesta risarcitoria non è stata
giustificata nè accompagnata da elementi probatori
dell’indicazione del danno asseritamente subito: la
mancanza della necessaria dimostrazione del danno non consente, dunque, di
accogliere la domanda.
Per
le ragioni esposte il ricorso deve quindi essere respinto con la conseguente
conferma della sentenza impugnata.
Sussistono
giusti motivi per compensare le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione V) rigetta l’appello in
epigrafe e per l’effetto conferma la sentenza impugnata
Compensa
le spese. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità
amministrativa.
Così
deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di
consiglio del 21 giugno 2005.