IL DIRETTORE LAVORI HA L’OBBLIGO DI
VIGILARE E IMPARTIRE ALL’IMPRESA DISPOSIZIONI ATTE A GARANTIRE LA REALIZZAZIONE
DELL’OPERA SENZA DIFETTI COSTRUTTIVI, SPECIE SE IL PROGETTO HA ASPETTI DI
GENERICITA’
(Cassazione civile , sez. II,
24 luglio 2007 , n. 16361)
Il motivo è privo di pregio
atteso che, come più volte affermato da questa Corte in tema di responsabilità
conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, il direttore dei lavori
per conto del committente presta un’opera professionale in esecuzione di
un’obbligazione di mezzi e non di risultati ma, essendo chiamato a svolgere la
propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze
tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per
assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che
il committente - preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento
deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma
alla stregua della “diligentia quam” in concreto; rientrano pertanto nelle
obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della
progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità
dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonchè
l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la
realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi, esercitando una vigilanza
attiva su tutte le fasi di realizzazione dell’opera, e segnalando
all’appaltatore tutte le situazioni anomale e gli inconvenienti che si
verificano in corso d’opera. Conseguentemente il professionista non si sottrae
a responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le opportune
disposizioni al riguardo, nonchè di controllarne l’ottemperanza da parte
dell’appaltatore ed, in difetto, di riferirne al committente (tra le tante,
sentenze 20/7/2005 n. 15255; 28/11/2001 n. 15124, 29/8/2000 n. 11359).
In particolare l’attività del
direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell’alta
sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e
giornaliera sul cantiere nè il compimento di operazioni di natura elementare,
comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sua varie fasi e
pertanto l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche
visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in
relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte
e la corrispondenza dei materiali impiegati (sentenza 27/2/2006 n. 4366).
Tale presenza e controllo
costante deve ritenersi tanto più necessario quando, come appunto nel caso in
esame, il progetto presenti aspetti di genericità con conseguente necessità di
un più attento controllo in sede esecutiva.
. . .
omissis . . .
Fatto
B.G. conveniva in giudizio M.G.
chiedendone la condanna al pagamento di L. 33.132.240 a titolo di compenso
lavori relativi alla costruzione delle fondazioni e dei muri perimetrali di un
capannone. Il M., costituitosi, eccepiva che i lavori non erano stato eseguiti
a regola d’arte per cui era stato costretto a sostituire il terreno argilloso,
posto a ridosso dei muri perimetrali, con materiale idoneo per il drenaggio. Il
convenuto proponeva domanda riconvenzionale per ottenere la condanna
dell’attore e del direttore dei lavori ing. E.L. (di cui chiedeva ed otteneva
la chiamata in causa) al rimborso delle spese sostenute per eliminare i vizi
della costruzione e al risarcimento dei danni.
Il terzo chiamato si costituiva e
respingeva ogni sua responsabilità che addebitava al M. per aver impartito
l’ordine di ammassare terriccio argilloso contro le mura di fondazione del
capannone. L’ E. chiedeva in via riconvenzionale la condanna del convenuto al
pagamento dei propri onorari pari a L. 12.123.170.
Con sentenza 24/3/2000 il tribunale
di Mondovì: a) condannava il M. a pagare al B. L. 33.132.240, quale residuo
corrispettivo contratto di appalto, oltre interessi e rivalutazione monetaria a
decorrere dal 31/12/1991; b) condannava il M. a versare all’ing. E. L.
4.000.000 per prestazioni professionali; c) condannava il B. e l’ E. a pagare,
in via solidale, al M. complessive L. 20.990.668 a titolo di risarcimento danni
oltre interessi e rivalutazione monetaria; d) disponeva che venisse operata la
compensazione tra i reciproci crediti e debiti.
Avverso la detta sentenza tutte le
parti proponevano gravame.
Con sentenza 2/8/2002 la corte di
appello di Torino in parziale riforma della decisione impugnata: 1) condannava
il M. a corrispondere all’ E. L. 9.862.413; 2) condannava il B. e l’ E. a
pagare in via solidale al M. L. 5.245.082 a titolo di risarcimento danni; 3)
rigettava l’appello del B.. La corte di appello osservava: che il progetto
predisposto dall’ing. E. conteneva per ogni muro in cemento armato la precisa
indicazione della necessità di riempire lo scavo con “materiale drenante”; che
tale terminologia era generica per cui occorrevano precise indicazioni di
cantiere in sede di esecuzione; che se l’ E. avesse controllato l’attività di
riempimento dello scavo avrebbe dissentito dall’impiego del materiale
argilloso, sicchè la situazione dannosa dovuta all’errata scelta del materiale
terroso per il riempimento si era verificata per l’assenza in tale occasione
del direttore dei lavori e per il suo mancato controllo successivo; che
incombeva al direttore dei lavori l’onere di vigilare e controllare l’operato
dell’appaltatore sino all’ultimazione delle opere progettate; che, quindi, il
direttore dei lavori non era estraneo alla errato riempimento dello scavo in
quanto, se non altro, tenuto a controllare la scelta del materiale di
riempimento lasciato generico nel suo progetto; che il tribunale si era
attenuto al principio di parità delle quote di responsabilità sancito dagli
artt. 1298 e 2055 c.c., ed al riguardo l’ E. non aveva fornito motivi specifici
a sostegno di una diversa decisione; che era fondata la censura mossa dall’ E.
in ordine al quantum del suo compenso professionale avendo il tribunale
proceduto ad una decurtazione sulla sola base di una “chiara eccessività”, per
poi avvalersi di un potere di determinazione equitativa non previsto dalla
legge; che pertanto il credito da riconoscere all’ E. era pari a L. 9.862.413;
che secondo il B. il riempimento dello scavo non rientrava nell’oggetto
dell’appalto; che tale tesi non era fondata atteso che solo un contratto
scritto avrebbe potuto costituire il mezzo per tener separati i due tipi di
intervento (costruzione dei muri e scavo) altrimenti “organicamente complementari”
e connessi; che inoltre il B. non poteva ignorare il progetto dell’ E. che
conteneva le prescrizioni tecniche relative anche al riempimento
dell’avvallamento; che il personale intervento del M. nelle operazioni di
riempimento non era elemento sufficiente per dimostrare l’estraneità di tale
riempimento al contenuto del contratto di appalto; che, come si evinceva dalle
deposizioni dei testi, il M. si era limitato a spianare il terreno con la pala
meccanica e a collaborare e partecipare alle operazioni di riempimento; che il
B. aveva l’onere di controllare e coordinare le attività e le decisioni assunte
sul cantiere dai propri dipendenti; che non sussistevano gli estremi per
ravvisare una subordinazione dell’appaltatore alle direttive del committente e,
comunque, l’impresa appaltatrice doveva segnalare al committente i rischi
dell’operazione di riempimento senza la necessaria preventiva valutazione della
congruità del materiale impiegato; che la richiesta del B. di diminuzione della
sua quota di responsabilità non era sor-retta da uno specifico motivo di
gravame; che era emerso un concorrente e significativo apporto causale del
committente M. nella causazione del pregiudizio per aver indicato il materiale
terroso ai collaboratori del B.; che quindi correttamente il tribunale aveva
ravvisato un concorso del M. nella causazione del pregiudizio rilevante ex art.
1227 c.c., e pari ad un terzo; che, al contrario di quanto sostenuto dal M.,
nella parcella dell’ E. del 9/3/1992 non era ravvisabile una autolimitazione
operata dal professionista; che non risultava concluso un asserito accordo tra
l’ E. ed il M. volto ad escludere l’operatività del potere di liquidazione e
valutazione di congruità dell’Ordine competente ex art. 2233 c.c.; che era
fondata la censura del M. relativa ai maggiori interessi di preammortamento
corrisposti sul mutuo agrario dovendosi riconoscere a tale titolo L. 5.245.082
e non L. 3.857.334 come erroneamente affermato dal tribunale.
La cassazione della sentenza della
corte di appello di Torino è stata chiesta da M.G. con ricorso affidato a
quattro motivi. Hanno resistito con separati controricorsi B.G. e E.L. i quali
hanno proposto ricorsi incidentali sorretti, ciascuno, da due motivi. Il M. ha
resistito con controricorsi ai ricorsi incidentali.
Diritto
Il ricorso principale e quelli
incidentali vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..
Con il primo motivo del ricorso
principale M.G. denuncia violazione degli artt. 1227, 1228, 2049, 1665, 1658,
1663, 1669, 2055 c.c., e art. 116 c.p.c.. Ad avviso del ricorrente la corte di
appello ha errato nell’affermare che nella causazione del fenomeno dannoso
aveva concorso il comportamento colposo di esso committente e danneggiato per
aver indicato il materiale terroso ai collaboratori del B.. Tale conclusione
non può essere condivisa in quanto le operazioni di riempimento dello scavo
rientravano nell’ambito del contratto di appalto e necessitavano del controllo
diretto dell’appaltatore e del direttore dei lavori per cui doveva escludersi
ogni responsabilità del committente. Peraltro il tipo di materiale da
utilizzare per il riempimento dello scavo non era stato specificato nel
progetto sicchè era compito del costruttore - appaltatore (nella specie non
“nudus minister” del committente) scegliere il materiale più idoneo allo scopo
e sconsigliare l’utilizzo del terreno che il committente aveva chiesto di
impiegare. In ogni caso la detta richiesta non poteva integrare gli estremi
della responsabilità di cui all’art. 1227 c.c..
Con il secondo motivo il ricorrente
principale denuncia violazione degli artt. 1227, 1298 e 2055 c.c., sostenendo
che la corte di merito ha comunque errato nel determinare il grado di
efficienza causale di ciascuna colpa concorrente e nel quantificare la
percentuale del rispettivo concorso. Il Giudice di appello, senza alcuna
plausibile motivazione, ha applicato la presunzione di uguaglianza delle colpe
di ciascuno dei concorrenti nel fatto dannoso - richiamando l’art. 1298 c.c.,
inapplicabile nella specie - presunzione che comunque ha carattere residuale e
sussidiario. Nel caso in esame la scelta del materiale da impiegare per il
riempimento dello scavo competeva solo al B. per cui all’indicazione al
riguardo data da esso committente non poteva che attribuirsi una rilevanza
minima nella produzione dell’evento dannoso. L’appaltatore, infatti, avrebbe
dovuto opporsi all’utilizzo del materiale suggerito dal committente palesemente
inidoneo allo scopo. Del pari gravemente colposo è stato il comportamento del
direttore dei lavori rimasto inattivo durante l’esecuzione dei lavori.
La Corte rileva l’infondatezza delle dette
censure che, per evidenti ragioni di ordine logico, possono essere esaminate
congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza.
Va innanzitutto osservato che la
corte di appello - all’esito di un insindacabile accertamento di fatto - ha
coerentemente confermato il giudizio del tribunale in ordine alla concorrente
responsabilità del danneggiato e committente M. ponendo in evidenza che
quest’ultimo si era indebitamente inserito nell’esecuzione dei lavori
commissionati al B. indicando ai dipendenti dell’appaltatore il materiale
terroso da utilizzare per il riempimento dello scavo e poi partecipando e
collaborando a tale operazione.
Si tratta, come emerge con
immediatezza, di una valutazione di merito incensurabile in questa sede di
legittimità in quanto frutto di un’indagine accurata e puntuale delle
risultanze istruttorie (indicate nella decisione impugnata) e sorretta da
adeguata e corretta motivazione immune da vizi logici e da errori di diritto.
La corte distrettuale ha quindi
ineccepibilmente accertato tutti i fattori del pregiudizio lamentato dal M. ed
ha indagato anche sulla concorrenza di colpa dello stesso danneggiato e sulla
sua incidenza sulla genesi del danno.
Per quanto riguarda poi la
determinazione della gravità della colpa del danneggiato e dell’entità
percentuale dell’efficienza causale del comportamento del M. è appena il caso
di rilevare che, al contrario di quanto dedotto nel secondo motivo del ricorso
principale, la corte di appello non ha applicato la presunzione di uguaglianza,
prevista dall’art. 1298 c.c., ma ha quantificato il detto contributo causale
nella misura pari ad un terzo ritenendo che la pronuncia del tribunale al
riguardo era da considerare corretta tenuto conto della valutazione complessiva
dei fatti come accertati ed ampiamente descritti, nonchè dell’incidenza della
responsabilità del direttore dei lavori e dell’appaltatore, ossia degli altri
concorrenti nella produzione dell’evento dannoso.
Con il terzo motivo di ricorso il M.
denuncia violazione degli artt. 2697, 2233 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., e vizi
di motivazione deducendo che la corte di appello ha errato nel riconoscere
all’ing. E. il diritto al pagamento delle prestazioni professionali elencate
nella parcella n. (OMISSIS) disattendendo le specifiche contestazioni sul punto
formulate da esso ricorrente negli scritti difensivi in primo e in secondo
grado. Il professionista non aveva dimostrato l’effettiva esecuzione delle
prestazioni delle quali aveva chiesto il pagamento: la relativa prova non può
essere fornita con l’esibizione del parere del Consiglio dell’Ordine
professionale. In particolare il compenso per la direzione dei lavori non può
essere riconosciuto atteso che le risultanze processuali hanno escluso lo
svolgimento di tale attività.
Il motivo è in parte inammissibile
ed in parte infondato.
In via preliminare va segnalato che
dalla lettura della sentenza impugnata non risulta - nè emerge dal contenuto
della censura - che il M. nei motivi di appello abbia specificamente contestato
l’effettivo svolgimento da parte dell’ing. E. dell’attività professionale posta
a base della sua richiesta e richiamata nella parcella corredata del parere del
Consiglio dell’Ordine degli Ingeneri.
Nel motivo di ricorso in esame il M.
fa solo un generico riferimento alle “argomentazioni difensive” esposte in
primo grado nella memoria 28/1/1994 e nella comparsa di risposta nel giudizio
di appello con richiamo a quanto riportato nella lettera 7/9/1993 contenente
una vaga contestazione in ordine a non precisata “entità degli importi lavori”
ed a non individuata “esecuzione delle prestazioni”.
Ciò posto risulta palese l’assoluta
mancanza di specificità delle dette censure mosse dal M. con l’atto di appello
e delle quali, quindi, correttamente non si è occupato il giudice di secondo
grado.
Va solo aggiunto che l’ E., in
assenza di specifiche contestazioni in relazione alle singole voci riportate
nella parcella, non aveva l’onere di fornire una più approfondita dimostrazione
delle sue pretese. Infatti l’invio della parcella dal professionista al cliente
non condiziona necessariamente l’esigibilità del credito, che può essere fatto
valere anche col semplice invio di un estratto conto che valga come richiesta di
pagamento e atto di costituzione in mora. In tal caso, è onere del debitore, se
intende contestare la conformità alla tariffa professionale della richiesta di
pagamento, specificare le voci che ritiene non dovute perchè non conformi alla
tariffa, salva la verifica dell’esattezza delle contestazioni, da parte del
giudicante (in tali sensi sentenza di questa Corte 20/2/2003 n. 2561).
Con il quarto motivo il M. denuncia
violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver la corte di appello omesso l’esame
del terzo motivo di appello con il quale esso ricorrente aveva criticato -
sotto vari profili - la sentenza del tribunale nel capo in cui esso M. era
stato condannato a corrispondere al B., sulla somma riconosciuta quale
corrispettivo dell’appalto, gli interessi e la svalutazione monetaria a
decorrere dal 31/12/1991.
Il motivo è fondato come risulta
agevolmente dalla lettura degli atti processuali - attività consentita in
questa sede di legittimità attesa la natura, in procedendo, del vizio
denunciato - e, in particolare, dell’atto di appello come predisposto ed
articolato dal M.. Dalle pagina 17 alla pagina 21 di tale atto di gravame
l’appellante sollevò dettagliate censure alla parte della sentenza di primo
grado con la quale esso M. era stato condannato “a corrispondere
all’appaltatore B.G., sull’importo di L. 33.132.240, gli interessi legale e la
rivalutazione monetaria dal 31/12/1991 al saldo”.
Di tale motivo di appello la corte
di merito non si è occupata per cui deve ritenersi fondato il motivo di ricorso
in esame relativo alla denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c.. La sentenza
impugnata va pertanto cassata in relazione a tale motivo e la causa rinviata ad
altra sezione della corte di appello di Torino che provvedere a sanare il
rilevato vizio di omessa pronuncia.
Con il primo motivo del ricorso
incidentale B.G. denuncia violazione degli artt. 2696, 1362 c.c., e art. 116
c.p.c., deducendo di aver sempre sostenuto che il contratto di appalto
stipulato con il M. era limitato all’esecuzione delle fondamenta e dei muri
perimetrali con esclusione dei lavori di reinterro della parte posteriore del
capannone. Tale tesi è stata infondatamente disattesa dalla corte di appello
con argomenti non condivisibili. Incombeva infatti al M. l’onere di provare
l’inclusione dei lavori di copertura dello scavo tra quelli oggetto del
contratto di appalto. Tale prova non è stata fornita e, al contrario, assumono
rilevanza le fatture prodotte da esso B. - non considerate dalla corte di
merito - che nulla indicano in ordine ai lavori di riempimento dello scavo. In
proposito non può rivestire significato il progetto esecutivo dell’ing. E. -
che contemplava tale riempimento - non opponibile ad esso ricorrente
incidentale estraneo al rapporto professionale tra l’ E. ed il M.. D’altra
parte nessun teste ha affermato che esso B. dovesse operare sulla scorta di
detto progetto esecutivo. Peraltro il terreno argilloso venne collocato dal M.
il che conferma che questi non ha inserito nei lavori commissionati anche il
riempimento dello scavo. Il Giudice di secondo grado ha quindi violato anche le
regole ermeneutiche e, in particolare, l’art. 1362 c.c., che impone di valutare
il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del contratto.
Con il secondo motivo di ricorso
incidentale il B. denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., e art. 116 c.p.c.,
deducendo che, al contrario di quanto affermato dalla corte di appello e come
risulta dalle prove raccolte, esso ricorrente ha agito unicamente quale “nudus
minister” del committente essendo stato completamente “scavalcato” dal M. il
quale, dopo aver scelto il materiale da utilizzare, effettuò autonomamente le
operazioni di riempimento dello scavo e chiese agli operai di non attenersi
alle direttive ricevute intervenendo in tal modo contro la volontà
dell’appaltatore. Ciò avrebbe quanto meno dovuto suggerire una diversa
ripartizione dei danni tra le parti tenuto conto del minimo contributo causale
apportato da esso B. al verificarsi di tali danni.
I detti motivi - che meritano
trattazione congiunta per il nesso logico e giuridico che li lega sono
infondati risolvendosi, pur se titolati come violazione di legge e come vizi di
motivazione, essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del
merito della causa e in una diversa lettura del quadro probatorio nonchè in una
critica dell’apprezzamento delle prove come operato dal Giudice del merito
(omesso od errato esame di risultanze istruttorie, preferenza accordata ad
alcune prove rispetto ad altre) incensurabile in questa sede di legittimità se,
come nella specie, sorretto da motivazione adeguata ed immune da errori di
diritto o da vizi logici. Il sindacato di legittimità sul punto è limitato al
riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione
che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo
seguito nell’impugnata sentenza. Inammissibilmente il B. prospetta una diversa
lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la
valutazione delle risultanze probatorie sono affidate al giudice del merito e
costituiscono insindacabile accertamento di fatto; la sentenza impugnata non è
suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal
Giudice del merito siano, secondo l’opinione di parte ricorrente, tali da
consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.
Nel caso in esame non sono
ravvisabili gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge:
la sentenza impugnata è del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è
stata oggetto e che presuppongono una ricostruzione dei fatti di causa (con
riferimento, in particolare, all’individuazione dell’oggetto del contratto di
appalto stipulato dall’appaltatore B. e dal committente M.) diversa da quella
ineccepibilmente effettuata dal giudice di secondo grado.
Come ampiamente riportato nella
parte narrativa che precede la corte di appello ha proceduto alla attenta e
meticolosa disamina delle risultanze istruttorie e, sulla base di elementi e
circostanze di fatto qualificanti, ha coerentemente ritenuto - nel pieno
rispetto delle regole che disciplinano l’onere della prova - rientrante tra i
lavori commissionati al B. anche quello relativo al riempimento dello scavo in
questione e che l’appaltatore non era un mero “nudus minister” del committente.
Al riguardo la corte di merito ha
fatto riferimento: 1) alla complementarietà e inscindibilità dei lavori di
costruzione dei muri e del riempimento dello scavo; 2) alla presenza di un
progetto contenente prescrizioni relative anche all’intervento di riempimento;
3) alla necessaria conoscenza di detto progetto da parte dell’appaltatore; 4)
alle deposizioni dei testi escussi; 5) alla riferibilità all’appaltatore
dell’attività svolta dai suoi dipendenti.
La Corte Territoriale è quindi pervenuta
alle riportate conclusioni attraverso argomentazioni complete ed appaganti,
improntate a retti criteri logici e giuridici.
Il Giudice di appello ha dato conto
delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esaminando
compiutamente le risultanze istruttorie ed esponendo adeguatamente le ragioni
del suo convincimento.
Alle dette valutazioni il ricorrente
contrappongono le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste
rispetto a quelle compiute dal Giudice del merito non è certo consentito
discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo
esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di
cassazione.
Dalla motivazione della sentenza
impugnata risulta chiaro che la corte di appello, nel porre in evidenza gli
elementi probatori favorevoli alle tesi del M. ha implicitamente espresso una
valutazione negativa delle contrapposte tesi del B..
In definitiva, poichè resta
istituzionalmente preclusa in sede di legittimità ogni possibilità di
rivalutazione delle risultanze istruttorie, non può il ricorrente pretendere il
riesame del merito sol perchè la valutazione delle accertate circostanze di
fatto come operata dal Giudice di secondo grado non collima con le sue
aspettative e confutazioni.
Per quanto poi riguarda le doglianze
relative alla valutazione delle risultanze istruttorie (fatture e deposizioni
dei testi escussi) deve affermarsi che le stesse non sono meritevoli di
accoglimento anche per la loro genericità, oltre che per la loro incidenza in
ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.
Nel giudizio di legittimità il
ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze
probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del
ricorso per Cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non)
esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di
valutazione: solo così è consentito alla Corte di Cassazione accertare - sulla
base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di
indagini integrative - l’incidenza causale del difetto di motivazione (in
quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove
erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad
una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame
di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della
pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze
processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria
delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la
“ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base.
In proposito va ribadito che per
poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della
controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza
che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, si da far
ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad
una decisione diversa.
Nella specie le censure mosse dal B.
con i motivi in esame sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non
riportano il contenuto specifico e completo delle prove testimoniali e documentali
genericamente indicate in ricorso e non forniscono alcun dato valido per
ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di dette prove.
Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività
dei rilievi al riguardo mossi dalla ricorrente.
In definitiva non sono ravvisabili
nè i lamentati vizi di motivazione, nè le asserite violazione di legge: la
sentenza impugnata è del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è
stata oggetto.
Con il primo motivo del ricorso
incidentale E.L. denuncia vizi di motivazione deducendo che, come sostenuto da
esso ricorrente nell’atto di appello, nella specie non è ravvisabile un
comportamento negligente del direttore dei lavori causalmente ricollegabile al
danno subito dal M. e ciò in quanto la scelta di quest’ultimo di apporre il
materiale drenante ha fatto si che il direttore dei lavori non fosse presente
all’esecuzione dell’opera. Non era onere di esso E. presentarsi ogni giorno sul
posto per verificare se la committenza avesse acquistato il materiale drenante
da applicare a ridosso del fabbricato. Incombeva invece al M., al momento della
decisione di dare inizio alle operazioni di riempimento dello scavo, avvisare
il direttore dei lavori per presenziare all’esecuzione dell’opera. La corte di
appello non ha tenuto conto di questo spazio temporale tra l’ultimazione del
fabbricato e l’apposizione del materiale a ridosso dei muri.
Il motivo è privo di pregio atteso
che, come più volte affermato da questa Corte in tema di responsabilità
conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, il direttore dei lavori
per conto del committente presta un’opera professionale in esecuzione di
un’obbligazione di mezzi e non di risultati ma, essendo chiamato a svolgere la
propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze
tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per
assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che
il committente - preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento
deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma
alla stregua della “diligentia quam” in concreto; rientrano pertanto nelle
obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della
progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità
dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonchè
l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la
realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi, esercitando una vigilanza
attiva su tutte le fasi di realizzazione dell’opera, e segnalando
all’appaltatore tutte le situazioni anomale e gli inconvenienti che si
verificano in corso d’opera. Conseguentemente il professionista non si sottrae
a responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le opportune
disposizioni al riguardo, nonchè di controllarne l’ottemperanza da parte
dell’appaltatore ed, in difetto, di riferirne al committente (tra le tante,
sentenze 20/7/2005 n. 15255; 28/11/2001 n. 15124, 29/8/2000 n. 11359).
In particolare l’attività del
direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell’alta
sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e
giornaliera sul cantiere nè il compimento di operazioni di natura elementare,
comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sua varie fasi e
pertanto l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche
visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in
relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte
e la corrispondenza dei materiali impiegati (sentenza 27/2/2006 n. 4366).
Tale presenza e controllo costante
deve ritenersi tanto più necessario quando, come appunto nel caso in esame, il
progetto presenti aspetti di genericità con conseguente necessità di un più
attento controllo in sede esecutiva.
Con il secondo motivo del ricorso
incidentale l’ing. E. denuncia violazione degli artt. 1227, 1298 e 2055 c.c.,
sostenendo che l’applicazione del principio della presunzione di uguaglianza
delle colpe è palesemente illegittima in quanto il detto principio ha natura
residuale e non è applicabile nelle ipotesi - quale quella in esame - nelle
quali siano ravvisabili elementi tali da graduare la colpa in relazione al
comportamento dei soggetti concorrenti nella causazione del danno. Nella
specie, infatti, dall’istruttoria esperita in primo grado sono emersi concreti
e specifici elementi che avrebbero dovuto condurre ad una decisione diversa da
quella adottata tenuto conto, in particolare, della gravità della
responsabilità del committente colpevole sia di aver impartito agli operai
ordini contrastanti con le indicazioni del direttore dei lavori, sia di aver
partecipato e diretto operazioni di riempimento all’insaputa del direttore dei
lavori la cui responsabilità deve ritenersi minima e del tutto marginale.
Anche questo motivo va disatteso in
quanto, come è noto e come questa Corte ha avuto modo di affermare in tema di
contratto di appalto, qualora il danno subito dal committente sia conseguenza
dei concorrenti inadempimenti dell’appaltatore e del direttore dei lavori
(ovvero del progettista), entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo
sufficiente, per la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni
di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla
rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o
violazioni di norme giuridiche diverse (sentenze 14/10/2004 n. 20294; 28/1/2000
n. 972).
Peraltro dall’ampia e convincente
motivazione della sentenza impugnata risulta che la corte di appello - in
mancanza di validi elementi probatori e logici in senso contrario - ha
sostanzialmente ritenuto equivalente il grado di colpa dell’appaltatore e del
direttore dei lavori.
In definitiva vanno rigettati i
primi tre motivi del ricorso principale del M. ed i ricorsi incidentali del B.
e dell’ E.. Va invece accolto il quarto motivo del ricorso principale del M.
che si riferisce esclusivamente ai rapporti tra il detto ricorrente principale
ed il B. e con riferimento solo alla questione - prospettata dal M. nei motivi
di appello e non esaminata dalla corte di merito relativa agli interessi ed
alla svalutazione monetaria sulla somma di L. 33.132.240 che il M. è stato
condannato a pagare al B.. La sentenza impugnata va pertanto cassata
limitatamente al motivo accolto e la causa rinviata ad altra sezione della
corte di appello di Torino alla quale va rimessa anche la pronuncia sulla spese
di questo giudizio di legittimità tra le dette parti.
Tutti gli altri capi della sentenza
impugnata rimangono fermi.
Per la sussistenza di giusti motivi
le spese del giudizio di cassazione - in considerazione, tra l’altro,
dell’esito complessivo di tale giudizio - vanno interamente compensate tra il
M. e l’ E..
P.Q.M.
la Corte riunisce i ricorsi; rigetta
i primi tre motivi del ricorso principale ed i ricorsi incidentali; accoglie il
quarto motivo del ricorso principale; cassa la sentenza impugnata in relazione
al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione
limitatamente ai rapporti tra M.G. e B.G., ad altra sezione della corte di
appello di Torino;
compensa interamente tra M.G. e E.L.
le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 28 giugno
2007.
Depositato
in Cancelleria il 24 luglio 2007