D.LGS. N. 151/2001 -
TUTELA DELLA MATERNITA’ DEMANSIONAMENTO DEL LAVORATORE - MINISTERO DEL LAVORO -
INTERPELLO N. 39/2011
La Direzione generale per
l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro in risposta ad un quesito posto
in merito alle ipotesi di legittimo demansionamento
della lavoratrice al rientro dal periodo di astensione per maternità. con
riferimento al diritto al rientro e conservazione del posto di lavoro ex.
Art.56, co.1, D.Lgs. n.
151/2001
Con interpello n 39/2011,
che si pubblica in calce alla presente nota, il Dicastero ha risposto
affermando che è considerato lecito il patto di dimensionamento sottoscritto
tra il datore di lavoro e la lavoratrice madre, rientrante in servizio in epoca
antecedente al compimento di un anno di età del bambino, per fondate e
comprovabili esigenze tecniche, organizzative e produttive o di riduzione di
costi e per insussistenza di alternative
diverse per garantire la conservazione del posto di lavoro e per consentire aliunde l’esercizio delle mansioni.
Resta fermo, però, il divieto di decurtazione della retribuzione
dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di
interdizione dal lavoro, nonchè fino al compimento di
un anno di età del bambino, periodo durante il quale vige, altresì, il divieto
di licenziamento ex art. 54, co. 1,D.Lgs.n. 151/2001.
Tale conclusione risulta in
linea con l’orientamento giurisprudenziale, fatto salvo il caso di cessazione
dell’attività dell’azienda.
Ministero del Lavoro
Roma, 21 settembre 2011
Interpello n. 39
Oggetto: alt. 9, D.Lgs. n. 124/2004 - ipotesi di legittimo demansionamento del lavoratore art. 56, D.Lgs.
n. 151/2001, diritto al rientro e conservazione del posto di lavoro e alt. 5,
comma 5, L. n. 236/1993, contratti di solidarietà c.d. “difensivi”.
Il Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha avanzato richiesta di interpello per
conoscere il parere di questa Direzione generale in merito ad un duplice ordine
di questioni.
L’istante chiede, in primo
luogo, precisazioni circa la corretta interpretazione del disposto di cui
all’alt. 56 del D.Lgs. n. 15112001, con riferimento
alle modalità di esercizio del diritto della lavoratrice al rientro e alla
conservazione del posto di lavoro successivamente alla fruizione del periodo di
astensione pelo maternità.
In particolare, viene
sollevata la problematica concernente la possibilità di considerare legittimo
l’accordo intercorso tra la medesima lavoratrice, rientrante in servizio prima
del compimento di un anno di età del bambino, e il datore di lavoro, avente per
oggetto l’assegnazione a mansioni inferiori con eventuale decurtazione della
retribuzione; tale accordo, volto alla salvaguardia dell’interesse prevalente
alla conservazione del posto di lavoro, troverebbe la propria ratio giustificatrice nell’oggettiva impossibilità di
assegnare la lavoratrice alle mansioni da ultimo svolte, ovvero a mansioni
equivalenti, a causa della soppressione della funzione o reparto cui la stessa
era adibita anteriormente all’astensione.
Si chiede, inoltre, in caso
di soluzione negativa al quesito proposto, di quali diversi strumenti possa
fruire il datore di lavoro, qualora non sussistano alternative per
l’attribuzione alla dipendente di mansioni analoghe a quelle originariamente
espletate.
La seconda questione
sottoposta all’attenzione di questa Amministrazione trae, invece, origine dal
peculiare contesto di crisi aziendale, a fronte del quale il Legislatore
predispone lo slittamento dei contratti di solidarietà difensivi disciplinati
dall’alt. 5, comma 5, L. n. 236/1993.
Nello specifico,
l’interpellante chiede se, nell’eventualità della soppressione del reparto o
della funzione cui era addetto il lavoratore in solidarietà ed in caso di
impossibilità di assegnazione a mansioni equivalenti, nonché a seguito del
rifiuto opposto dal lavoratore medesimo alla sottoscrizione di un accordo per
l’adibizione a mansioni di grado inferiore, sia o
meno consentito all’azienda di continuare a fruire del contributo di
solidarietà.
In altri termini, si pone
in dubbio se l’eventuale licenziamento scaturente dalla situazione innanzi
descritta (soppressione dell’originaria funzione, proposta del datore di lavoro
di adibizione a mansioni inferiori con finalità di
salvaguardia della posizione lavorativa, rifiuto opposto dal lavoratore alla
stipulazione del contratto in tal modo configurato), produca effetti negativi
in ordine all’erogazione dei contributi integrativi riconosciuti per i contratti
di solidarietà.
AI riguardo, acquisito il
parere della Direzione generale della Tutela delle Condizioni di Lavoro e della
Direzione generale degli Ammortizzatori sociali e LO., si rappresenta quanto
segue.
In via preliminare, è
necessario inquadrare la problematica sottesa ad entrambi i quesiti nella
cornice giuridica di cui all’alt. 2103 c.c.
Come è noto la mobilità
delle mansioni assegnate al lavoratore può svilupparsi in direzione
orizzontale, mediante l’attribuzione di mansioni equivalenti ovvero verticale
nell’ipotesi di assegnazione a mansioni superiori, risultando di regola
preclusa la mobilità “verso il basso”.
Il Legislatore, in realtà,
non fornisce una esplicita definizione di “equivalenza” di mansioni, lasciando,
dunque, alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva il compito di
individuare gli indici della stessa, al fine di verificare se siano stati o
meno rispettati i limiti fissati dall’art. 2103 c.c., ai sensi del quale
“ì/lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o
a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente
acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,
senza alcuna diminuzione della retribuzione ( ... ) ogni patto contrario è
nullo”.
Il concetto di equivalenza,
secondo un consolidato orientamento, presuppone non solo che le nuove mansioni
consentano l’estrinsecazione della professionalità già acquisita, ma altresì
che il lavoratore possa, nell’ambito del differente inquadramento funzionale, conseguire
quegli incrementi di professionalità che avrebbe potuto acquisire mediante lo
svolgimento delle mansioni originarie.
Costituisce, inoltre,
principio cristallizzato nelle sentenze della Corte di Cassazione, quello in
virtù del quale l’att. 2103 c.c. debba essere interpretato nel senso di
considerare di regola illegittima l’adibizione del
lavoratore a mansioni inferiori, in ragione dell’espressa sanzione di nullità
comminata dalla norma a fronte di qualsiasi pattuizione
che introduca modifiche peggiorative alla posizione del lavoratore.
La Suprema Corte tuttavia,
nell’ambito di diverse pronunce, ha sostenuto la non applicabilità della norma
in questione laddove l’accordo che preveda l’assegnazione di mansioni di grado
inferiore alle ultime svolte corrisponda all’interesse del lavoratore stesso.
In altri termini, si è osservato che il divieto di demansionamento
debba essere interpretato alla stregua della regola dell’equo contemperamento
del diritto del datore a perseguire l’obiettivo di un’organizzazione aziendale
produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla conservazione
del proprio posto di lavoro.
Di conseguenza, nelle
ipotesi di sopravvenute e legittime scelte
imprenditoriali, comportanti l’esternalizzazione dei servizi ovvero la loro
assunzione a seguito di processi di conversione o ristrutturazione aziendali,
l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche
inferiori, a quelle precedentemente espletate, non si pone in contrasto con il
dettato codicistico (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009).
La
Corte di Cassazione ha, infatti, espressamente ammesso il patto di demansionamento, con assegnazione al lavoratore di mansioni
e conseguente retribuzione inferiore a quelle per le quali era stato assunto o
che aveva successivamente acquisito, esclusivamente al fine di evitare un
licenziamento, considerando prevalente, in tale ipotesi, l’interesse del
lavoratore stesso a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art.
2103 c.c. (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009;
n.21700/2006).
In
altri termini, solo in via d’eccezione le parti posso pattuire una diminuzione
della retribuzione nel corso del rapporto di lavoro, nell’ambito di un patto di
demansionamento,
laddove
questo rappresenti l’extrema ratio
per la salvaguardia del posto di lavoro. Ciò appare verosimile qualora il demansionamento riguardi un congruo numero di lavoratori e
dunque una evidente diminuzione dei costi aziendali. In tale ipotesi, pertanto,
l’impossibilità di mantenere il medesimo livello retributivo dovrà essere
rappresentato dal datore di lavoro come elemento in assenza del quale non è
possibile salvaguardare il posto di lavoro, a conforto delle suddette
argomentazioni la giurisprudenza ha puntualmente enucleato presupposti
indispensabili per considerare legittimo il mutamento in senso peggiorativo
delle mansioni, evidenziando in particolare la necessità che nelle fattispecie
concrete si riscontri l’effettività della situazione pregiudizievole che si
vuole scongiurare e soprattutto il consenso del lavoratore validamente
prestato, esente da ogni forma di vizio.
Ciò
premesso, fermo restando il divieto di licenziamento della lavoratrice madre
sancito dall’art. 54, comma l, D.Lgs. n. 151/2001 -
ai sensi del quale “le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio
del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal
lavoro ( ... ) nonché fino al compimento di un anno di età del bambino” -
appare opportuno esaminare i presupposti indispensabili per il corretto
esercizio del ius variandi datoriaIe, nonché tracciare i confini entro i quali il
datore di lavoro possa proporre legittimamente alla lavoratrice l’attribuzione
di mansioni inferiori alle ultime svolte.
In
linea con il richiamato orientamento giurisprudenziale, sembra potersi
considerare lecito
il
patto di demansionamento sottoscritto tra il
datore e la lavoratrice madre, rientrante in servizio in epoca antecedente al
compimento di un anno di età del bambino. In tal caso, occorre tuttavia verificare
che il contesto aziendale sia tale che, per fondate e comprovabili esigenze
tecniche, organizzative e produttive o di riduzione di costi, non sussistano
alternative diverse per garantire la conservazione del posto di lavoro e per
consentire aliunde l’esercizio delle mansioni.
Non
appare invece lecito, finché dura il periodo in cui vige il divieto di
licenziamento, che dalla soluzione innanzi prospettata consegua anche la
decUl1azione della retribuzione, in quanto tale soluzione appare in contrasto
con la finalità della norma che comunque preclude il recesso datoriale anche
nelle ipotesi di soppressione del posto di lavoro (a meno che non si verifichi
la cessazione dell’attività dell’azienda).
Con
riferimento al secondo quesito, nella misura in cui l’azienda dovesse adottare,
quale extrema ratio, il
provvedimento di licenziamento nei confronti di alcuni lavoratori in
solidarietà per soppressione della funzione, ciò potrebbe comportare il venir
meno dell’erogazione dei benefici di cui all’at1. 5, comma 5, L. n. 236/1993,
considerando che non sussisterebbero più, in tale ipotesi, le condizioni in
forza delle quali è stata avviata la procedura per la stipulazione dei
contratti di solidarietà stessi.
Inoltre,
in ogni caso, qualora il datore di lavoro proponga un demansionamento
ai lavoratori occupati con contratti di solidarietà nell’ambito di reparti
soppressi, dovrà evidentemente predisporre un nuovo piano di risanamento e
procedere alla successiva stipulazione di un nuovo accordo sindacale per la
solidarietà.
Contratti
di solidarietà, c.d. ‘’difensivi” - Art. 5, co. 5, L.
n. 236/1993
Per ciò
che concerne il provvedimento di licenziamento operato nei confronti di
lavoratori in solidarietà, a seguito del rifiuto opposto dagli stessi a
ricoprire mansioni di grado inferiore nel caso di soppressione di reparto o
funzione per crisi aziendale, nonchè per impossibilità di assegnazione a mansioni
equivalenti, il dicastero ha chiarito che, non sussistendo più i requisiti
necessari per l’ottenimento dei benefici previsti dall’art. 5, co. 5 della L. n. 236/1993 , la fruizione di tali
contributi di solidarietà sarà automaticamente interrotta.
È stato
inoltre chiarito che nell’eventualità di demansionamento
di lavoratori con contratto di solidarietà, il datore di lavoro dovrà
predisporre un piano di risanamento e avviare un nuovo accordo sindacale per la
solidarietà.