MINISTERO DEL LAVORO - LICENZIAMENTI PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO - PROCEDURA OBBLIGATORIA DI
CONCILIAZIONE CIRCOLARE N. 3/2013
Il Ministero
del Lavoro, con circolare n. 3 del 16 gennaio 2013, che si pubblica in calce
alla presente, ha fornito taluni chiarimenti in merito alla procedura
obbligatoria di conciliazione introdotta dalla Legge n. 92/2012 c.d. “Riforma
Fornero” o “Riforma del mercato del lavoro” in occasione del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Chi riguarda.
Tale procedura è riferita ai
licenziamenti individuali (sono considerati tali anche i licenziamenti
effettuati nell’arco di 120 giorni purché non arrivino a 5, altrimenti dovrebbe attivarsi la procedura di cui all’art. 4 della L.
n. 223/91 per i licenziamenti collettivi) effettuati dai datori di lavoro che
abbiano alle dipendenze, in ciascuna sede, stabilimento, filiale o ufficio, più
di 15 dipendenti e che comunque soddisfino tale requisito al
livello comunale o che, comunque, occupino più di 60 dipendenti su scala
nazionale.
Nell’ambito del computo di cui sopra sono
esclusi: gli apprendisti, gli assunti con contratto di inserimento, gli assunti
con contratto di reinserimento, gli assunti e già
impiegati in lavori socialmente utili, i lavoratori somministrati. Vengono
invece computati in maniera parziale e proporzionalmente all’orario di lavoro
effettivamente svolto i lavoratori a tempo indeterminato part time e i lavoratori intermittenti.
I motivi del licenziamento.
La procedura introdotta ha inizio con una
comunicazione che il datore di lavoro deve inviare alla DTL e, per conoscenza,
al lavoratore, nella quale deve indicare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento (GMO).
Esempi di GMO sono: la ristrutturazione
di reparti, la soppressione del posto di lavoro, la terziarizzazione,
l’esternalizzazione di attività. Il Dicastero ha poi indicato quali altre
ipotesi di licenziamento per GMO quelle legate all’inidoneità
fisica, all’impossibilità del c.d. repechage, al licenziamento di un lavoratore
a tempo indeterminato in edilizia, anche per chiusura cantiere, ai
provvedimenti di natura amministrativa che incidono sul rapporto di lavoro,
alle misure detentive.
Il superamento del periodo di comporto
non rientra nelle ipotesi di giustificato motivo oggettivo, trovando specifica
tutela nell’ambito dell’art. 18 della L. n. 300/1970.
La procedura.
La procedura ha inizio con la
comunicazione scritta del datore di lavoro inviata alla DTL e, per
conoscenza, al domicilio del lavoratore, nella quale viene indicata
l’intenzione di procedere al licenziamento e le motivazioni oltre ad eventuali
soluzioni alternative per la ricollocazione del dipendente che, non
necessariamente, devono coincidere con un lavoro
subordinato.
La DTL procede quindi a convocare
mediante raccomandata o posta certificata le parti, trasmettendo l’invito entro
il termine di 7 giorni dalla recezione dell’istanza. La circolare richiede agli
uffici la massima celerità per non vanificare l’intento
della procedura di conciliazione, fissando la comparizione delle parti entro il
termine di 20 giorni dalla convocazione.
La commissione di conciliazione.
Le parti invitate a presentarsi nell’ora
e nel giorno stabilito, potranno essere assistite dalle
organizzazioni di rappresentanza, da un componente della RSA o della RSU o da
un avvocato o un consulente. È stata espressa la necessità che le parti
compaiano personalmente.
La commissione, composta da un
rappresentante di parte datoriale, uno di parte
sindacale e un funzionario della DTL delegato dal proprio dirigente, redigerà
apposito verbale dell’incontro. La Commissione pone in essere una vera e
propria attività mediatoria, sia per ciò che concerne l’eventuale indennità incentivante che per quanto concerne le alternative al recesso.
La procedura dovrà concludersi entro i
venti giorni dalla data di convocazione dell’incontro da parte della DTL.
Se le parti reputano necessario procedere
oltre per il raggiungimento di un accordo, il termine di 20
giorni potrà essere prorogato, così come si può procedere ad una sospensione in
caso di legittimo impedimento del lavoratore.
Esiti.
Nel caso in cui le parti non addivengano
ad un accordo o si verifichi l’assenza o l’abbandono di
una delle parti stesse, il tentativo potrà dirsi aver avuto esito negativo.
Qualora non sia stata effettuata la
convocazione per la comparizione delle parti entro il termine
perentorio di 7 giorni dalla recezione della comunicazione, il datore di lavoro
potrà procedere al licenziamento.
Il licenziamento intimato, invece, al
termine della procedura conciliativa, ha effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato, ossia dal giorno
del ricevimento della comunicazione da parte della DTL, salvo naturalmente il
diritto al preavviso o all’indennità sostitutiva.
Per ciò che concerne gli obblighi di
comunicazione, questi decorrono dal giorno della
risoluzione effettiva senza tener conto, evidentemente, della retroattività.
Gli effetti del licenziamento rimangono
sospesi in caso di infortunio sul luogo di lavoro, fermo restando la nullità
del licenziamento intervenuto in costanza di maternità/paternità,
mentre la malattia non sospenderà gli effetti.
Se il tentativo si conclude positivamente
con un accordo consensuale tra le parti, la commissione redige il verbale con
tutti gli aspetti della procedura, anche quelli di natura economica.
La risoluzione consensuale è una delle
ipotesi in cui la Riforma Fornero ha previsto il diritto del lavoratore al
godimento dell’ASPI, sostitutiva della vecchia indennità di disoccupazione.
Ministero del Lavoro
Roma, 16 gennaio 2013
Circolare n.
3
Oggetto: art. 7 L. n. 604/1966, come modificato
dall’art. I, comma 40, della L. n. 92/2012- procedura obbligatoria di
conciliazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo - primi
chiarimenti operativi.
L’art. 1, comma 40, della L. n. 92/2012, modificando l’art. 7 della L. n. 604/1966 e puntando ad una
deflazione del contenzioso in materia di licenziamenti per giustificato motivo
oggettivo, affida alla commissione provinciale di conciliazione istituita ex
art. 410 c.p.c., il compito di espletare un tentativo di
conciliazione della controversia, secondo un iter che presenta alcune analogie
con quello previsto, per le riduzioni collettive di personale, dagli artt. 4,
5, 16 e 24 della L. n. 223/1991.
La presente circolare, oltre a sottolineare l’estrema importanza del compito affidato dal Legislatore alle
articolazioni periferiche della nostra Amministrazione ed alle commissioni di
conciliazione istituite presso le stesse, si propone di chiarire alcuni aspetti
della nuova disposizione richiamando, peraltro, l’attenzione dei
Dirigenti ad uno sforzo organizzativo non indifferente.
La procedure pone un intervallo temporale
tra il momento in cui il datore di lavoro manifesta la propria volontà di
recedere dal rapporto - comunicata al lavoratore interessato
- e quello nel quale il licenziamento esplica i propri effetti. Questo lasso di
tempo può avere una propria “utilità” in quanto consente alle parti di
confrontarsi presso una sede che offre garanzie di terzietà e di trovare
soluzioni alternative al licenziamento.
Quanto appena detto postula la necessità
di un concreto coinvolgimento dell’Ufficio e delle proprie articolazioni
interne, Don soltanto nella fase della trattativa, ma anche in quella di
supporto (segreteria, protocollo, senza ‘’tempi morti”)
e di chiarificazione dei contenuti attraverso le strutture impegnate ad
informare l’utenza (U.O. conflitti di Lavoro, ufficio relazioni con il
pubblico, Ispettore di turno, ecc.).
Datori di lavoro interessati
È necessario anzitutto verificare nel concreto le modalità applicative della disposizione, partendo dalla
individuazione dei soggetti nei confronti dei quali il nuovo art. 7 della L. n.
604/1966 trova applicazione.
Al riguardo il Legislatore individua i
datori di lavoro interessati dalla procedura sulla base di limiti
dimensionali, rispetto ai quali si ritiene che l’Ufficio non abbia tuttavia
alcun potere di valutazione.
Sono tenuti al rispetto della nonna tutti
i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che in ciascuna sede,
stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo
occupino alle proprie dipendenze più di 15 unità o più di 5 se imprenditori
agricoli.
La disposizione trova applicazione anche
nei confronti del datore, imprenditore o non imprenditore, che nello stesso
ambito comunale occupi più di 15 lavoratori, pur se
ciascuna unità produttiva non raggiunga tali limiti (anche per l’imprenditore
agricolo dimensionato oltre le 5 unità vale lo stesso principio) e, in ogni
caso, a chi occupa più di 60 dipendenti su scala nazionale.
Ai fini del computo i lavoratori a
tempo parziale indeterminato sono calcolati “pro quota” in relazione ali
‘orario pieno contrattuale, mentre non si computano il coniuge ed i parenti
entro il secondo grado, sia in linea diretta che collaterale (commi 8 e 9 del nuovo art. 18, come modificato dal comma 42 dell’art. I, della L.
n. 92/2012).
Va poi evidenziato che la previsione
ricalca quanto già accennato dal Legislatore della L. n. 108/1990. Da ciò
scaturisce la validità di alcuni indirizzi consolidatisi nel corso degli anni passati presso la Suprema Corte come quello secondo il
quale il calcolo della base numerica deve essere effettuato non già nel momento
in cui avviene il licenziamento, ma avendo quale parametro di riferimento la
c.d. “normale occupazione” nel periodo antecedente (gli ultimi
6 mesi), senza tener conto di temporanee contrazioni di personale. Al riguardo
va ricordato che nelle aziende ove, per motivi di mercato o di attività svolta
in periodi predeterminati, l’occupazione è “fluttuante”, la giurisprudenza oscilla tra un concetto di “media” (Cass. sento n.
2546/2004) ed uno di “normalità” della forza lavoro riferita all’organico
necessario in quello specifico momento dell’anno (Cass. sent. n. 2241/1987;
Casso sent. n. 2371/1986).
Un altro tema che va
affrontato riguarda la non computabilità di alcune tipologie contrattuali, per
effetto di specifiche disposizioni legislative come:
a) gli assunti con rapporto di
apprendistato (qualunque sia la tipo10gia ed ivi compresi i C.d. “apprendisti
in mobilità”) in quanto l’art. 7, comma 3, del
D.Lgs. n. 167/2011 li esclude espressamente, ribadendo la disposizione già
contenuta nell ‘art. 21 della L. n. 56/1987, ora abrogato;
b) gli assunti con contratto di
inserimento, fino a quando tale contratto rimarrà nel
nostro ordinamento (è stato infatti abrogato dall’art. l, comma 14, della L. n.
92/2012 a decorrere dal prossimo anno);
c) gli assunti con contratto di re
inserimento ex art. 20 della L. n. 223/1991;
d) gli assunti, già impiegati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità, secondo
la previsione contenuta nell’art. 7, comma 7, del D.Lgs. n. 81/2000;
e) i lavoratori somministrati che, per
effetto dell’art. 22, comma 5, del D.Lgs. n. 276/2003,
non rientrano nell’organico dell’utilizzatore.
Vanno, invece, compresi nell’organico
aziendale i lavoratori delle società cooperative di
produzione e lavoro che hanno
sottoscritto un contratto di lavoro subordinato secondo la previsione contenuta
nell’art. t, comma 3, della L. n. 14212001, i lavoratori a
domicilio, i lavoratori sportivi professionisti che, in virtù dell’art. 4,
comma 9, della L. n. 91/1981, rientrano nel computo dimensionale deII’ azienda.
Il computo parziale nell’organico non
riguarda soltanto i lavoratori ad orario ridotto a tempo indeterminato
- come riportato, esplicitamente, dalla norma - ma anche gli intermittenti, in
forza dell’art. 39 del D.Lgs. n. 276/2003, che li calcola nell’organico
dell’impresa “ai fini
dell’applicazione di norme di legge, in
proporzione all ‘orario di lavoro effettivamente
svolto nell’arco di ciascun semestre” O quelli “in lavoro ripartito”, computati
complessivamente in relazione all’orario svolto e che vanno considerati come
un’unità allorquando l’orario complessivo coincida con il tempo pieno.
Motivazioni del licenziamento.
Un’altra questione che va preliminarmente
esaminata riguarda la motivazione del licenziamento (che è bene, ricordarlo, in
questa fase è rimessa alla sola valutazione del datore di lavoro) quale
riferibile ad un giustificato motivo oggettivo, secondo
quanto prevede l’art. 3, seconda parte, della L. n. 604/1966.
Su questa linea di recente si è espressa
la Suprema Corte (Cass. sent. n. 11465 del 9 luglio 2012), allorquando ha
affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva è una scelta riservata
all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche
dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice
quanto ai profili della sua congruità ed opportunità.
A titolo esemplificativo, il giustificato
motivo oggettivo di licenziamento è stato ricondotto ad ipotesi di
ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di
lavoro. dì terziarizzazione e di esternalizzazione di attività. Le prime due
non possono essere genericamente individuate ma debbono essere ricondotte alla
esigenza di dover, necessariamente, “cancellare” o ridurre quel reparto o, a maggior ragione, quel posto di lavoro nel quale si trova ad
operare il dipendente, con l’impossibilità di una utilizzazione in altre
mansioni compatibili con quella precedentemente svolta.
A ciò vanno aggiunte altre ipotesi di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che,
peraltro, non esauriscono l’ampia tematica) che fanno riferimento alla
inidoneità fisica (Cass. sent. n. 14065/1999; Casso sento n. 9067/2003; Casso
sent. n. 401211998), alla impossibilità del c.d . “repechage” anche a[J’interno del “gruppo d’imprese” (Cass. sento n. 7717/2003; Casso sent. n.
16579/20 IO), al licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato in
edilizia, anche per chiusura del cantiere (Cass. sent. 1162/1993; Casso sent.
n. 2364/l989), ai provvedimenti di natura amministrativa (Cass.
sent. n. 2267/1999; Casso sent. n. 7726/2005; Casso sent. n. 2727/1989; Cass.
sent. n. 7726/2005) che incidono sul rapporto (ad esempio, il ritiro della
patente di guida o di un tesserino di ingresso rilasciato dalle autorità doganali agli spazi aeroportuali o il ritiro del porto d’anni ad una
guardia particolare giurata), alle misure detentive (Cass. sent. n. 22536/2008;
Cass. sent. n. 2267/2009).
Non si ritiene Invece ricompreso
nell’ambito dei licenziamenti per giustificato
motivo oggettivo il licenziamento avvenuto per superamento del periodo di
comporto ai sensi dell’art. 21 c.c. la cui violazione, peraltro, trova una
specifica tutela nell’ambito del riformulato art. 18 della L. n. 300/1970.
La procedura obbligatoria di conciliazione è invece necessaria allorquando il datore intenda
effettuare più licenziamenti individuali nell’arco temporale di 120 giorni
(art. 24, L. n. 223/1991) anche per i medesimi motivi senza raggiungere la
soglia di 5; qui ci si trova di fronte a “recessi
plurimi” per esigenze oggettive dell’azienda, tutti ricadenti nella procedura
oggi prevista per i licenziamenti individuali e non in quella disciplinata
dall’art. 4 della L. n. 223/1991.
Nel caso in cui la Direzione territoriale
del lavoro si accorga che il datore ha chiesto più di 4
tentativi di conciliazione per i medesimi motivi deve ritenere non ammissibile
la procedura, invitando il datore di lavoro ad attivare quella di riduzione
collettiva di personale prevista dalla L. n. 223/ 1991.
Apertura
della procedura e ruolo della Direzione territoriale del lavoro
Il datore di lavoro rientrante nel campo
di applicazione del nuovo art. 18 che intende procedere ad un licenziamento per
giustificato motivo oggettivo è obbligato ad inviare una comunicazione scritta alla Direzione del lavoro competente per ambito territoriale
(in base al luogo di svolgimento dell’attività del dipendente) e trasmessa per
conoscenza al diretto interessato .
Il contenuto deve far riferimento
all’intenzione di procedere al licenziamento per un motivo oggettivo,
deve indicarne le motivazioni, nonché le eventuali misure di assistenza
finalizzate ad una ricollocazione. Si ricorda inoltre di indicare nella
comunicazione, qualora il datore di lavoro ne sia in possesso, l’indirizzo di posta elettronica certificata.
La comunicazione si intende trasmessa a
“buon fine”, nei confronti del lavoratore, se spedita al domicilio indicato nel
contratto o quello successivamente indicato o, infine, se consegnata a mano con
ricezione attestata da una firma sulla copia.
Dalla data di ricezione della
comunicazione trasmessa da parte del datore di lavoro all’Ufficio si intende
dunque avviata la procedura in esame; va infatti ricordato che la stessa
comunicazione è trasmessa “per conoscenza” al lavoratore
(art. 7, comma 1, della L. n. 604/1966) e pertanto, ai fini della
individuazione de] momento di avvio della procedura, assume valore
preponderante la data di ricezione da parte della DTL.
A differenza del tentativo facoltativo di
conciliazione previsto dalla L. n. 183 del 2010, ove i
“luoghi teatro” dell’iter teoricamente possibili erano diversi (organismi di
certificazione, camere e collegi arbitrali, sedi sindacali ecc.), la procedura
compositoria in questione si può svolgere soltanto davanti la commissione di conciliazione istituita presso la Direzione territoriale del
lavoro, la cui composizione è espressione delle organizzazioni datoriali e
sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale e che, in via
ordinaria, opera attraverso sotto commissioni composte da un
rappresentante di parte datoriale, da uno di parte sindacale e da un
funzionario della DTL delegato dal proprio Dirigente.
A differenza dell’art. 413 c.p.c. che,
radicando indirettamente la competenza del giudice del lavoro, individua anche quella della Direzione territoriale del lavoro per il
tentativo facoltativo di conciliazione e che prevede “fori alternativi”, il
nuovo art. 7 della L. n. 60411966 individua attraverso il solo luogo di
svolgimento dell’attività del dipendente l’organo
ministeriale competente per territorio.
Modalità e contenuti della comunicazione
datoriale
Passando alle modalità ed ai contenuti
della comunicazione datoriale, va ricordato come l’art. 410 c.p.c., nella
versione riformata dall’art. 31 della L. n. 183/2010,
faccia riferimento ad una “raccomandata con avviso di ricevimento”. In ogni
caso, si ritiene pienamente valida una comunicazione inviata alla Direzione del
lavoro attraverso “posta elettronica certificata”.
La comunicazione datoriale va effettuata
per iscritto, come traspare chiaramente da due elementi: il primo
riguarda l’indicazione della motivazione del recesso e la descrizione delle
misure
eventuali di assistenza alla
ricollocazione; il secondo scaturisce dal fatto che la comunicazione deve essere inviata sia alla DTL che al domicilio del lavoratore.
La comunicazione è fondamentale in quanto
consente di conoscere le cause che determinano, ad avviso del datore, la
necessità di procedere al licenziamento. La
comunicazione relativa al licenziamento individuale deve presentare
caratteristiche precise, in quanto l’imprenditore ha già individuato il
soggetto nei confronti del quale esercitare l’azione di recesso; tutto questo, secondo principi di “correttezza” e “buona fede” ribaditi dalla Suprema
Corte con la sentenza n. 7046/2011.
Anche le misure attivabili ai fini di una
ricollocazione (che, peraltro, sono eventuali) vanno individuate con una certa
puntualizzazione in quanto possono facilitare la soluzione della
controversia. Per quel che riguarda la individuazione delle misure alternative,
di ricollocazione o di assistenza alla ricollocazione, va ricordato come la
stessa Cassazione, con la sentenza n. 6625 del 23 marzo 2011, abbia affermato che non necessariamente debbano avere la caratteristica
del lavoro subordinato, ben potendo l’offerta riguardare una prospettiva di
lavoro autonomo o in cooperativa.
Istruttoria della Direzione territoriale
del lavoro
I tempi del tentativo di conciliazione sono obiettivamente brevi e, in questa ottica, il comma
3 del nuovo art. 7 della L. n. 604/1966 impone un preciso onere alla Direzione
territoriale del lavoro che ha ricevuto la comunicazione datoriale: quello di
convocare le parti avanti alla commissione (o sotto
commissione) provinciale di conciliazione, trasmettendo l’invito a comparire
entro il termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione dell’istanza. A cadenza
almeno settimanale la DTL provvederà inoltre a comunicare ai componenti della commissione i nominativi delle parti convocate presso la stessa
commissione per il tentativo di conciliazione.
La nota della DTL, con il giorno e l’ora
della convocazione, deve essere trasmessa con la massima celerità al fine di
non vanificare la procedura obbligatoria di conciliazione;
essa va inviata con lettera raccomandata o preferibilmente attraverso “posta
elettronica certificata”.
Forme alternative di invio della
comunicazione, attesa la necessità di coniugare la certezza dell’invio con
l’effettiva conoscenza della data della riunione
da parte degli interessati, non risultano possibili (tranne, ovviamente, i casi
sporadici di “consegna a mano”).
I tempi ristretti postulano la necessità
di un diversa organizzazione sia dell’Ufficio vertenze della Direzione del lavoro che dell’attività della commissione di
conciliazione. Una volta pervenuta la richiesta, la convocazione delle parti va
fatta con immediatezza, indicando una data molto ravvicinata per l’incontro e,
possibilmente, prevedendo riunioni “straordinarie” delI’organo
conciliativo.
Fissare la convocazione delle parti, pur
rispettando il termine perentorio dei 7 giorni dalla richiesta, ma entro un
limite temporale che va oltre i 20 giorni dalla convocazione, significa
vanificare la procedura conciliativa.
Codesti Uffici dovranno pertanto
organizzarsi in modo tale da assolvere a tale preciso onere normativo e
dell’osservanza di tali indicazioni si terrà conto ai fini della valutazione
del comportamento organizzativo dei Dirigenti delle rispettive strutture.
Attività della commissione di
conciliazione
Nel giorno e nell’ora fissata dalla
lettera di convocazione, le parti sono invitate a presentarsi avanti all’organo
conciliativo. L’assenza di una delle stesse non sorretta da alcun elemento
giustificativo produce la redazione di un verbale
di assenza.
Ovviamente, si ha motivo di ritenere che
se la mancata presenza del lavoratore abilita il datore di lavoro ad attuare il
recesso, la stessa cosa non può dirsi nel caso contrario.
Il comma 5 dell’art. 7 offre la possibilità alle parti di essere assistite dalle organizzazioni
di rappresentanza cui siano iscritte o abbiano conferito mandato o da un
componente la RSA o la RSU, da un avvocato o da un consulente del lavoro
iscritti al relativo albo.
AI riguardo va
puntualizzata la possibilità che le parti siano o meno presenti avanti alla
commissione di conciliazione o possano [arsi rappresentare da un soggetto terzo
munito di apposita delega. La delega può essere autenticata secondo le modalità
attualmente in vigore (delega sottoscritta dalla parte,
unitamente a copia del documento d’identità, ovvero autentica rilasciata dallo
stesso avvocato che rappresenta ed assiste il proprio cliente).
Pur non escludendo che in linea di
principio le parti possano delegare altre persone alla trattazione (cosa
abbastanza ricorrente per il datore di lavoro), si ritiene che dall’articolato
emerga l’opportunità che i soggetti interessati siano tutti presenti e, in
particolar modo, il lavoratore. Quest’ultimo aspetto emerge anche dalla previsione contenuta nel comma 9 dell’art. 7, allorquando si
afferma che “in caso di legittimo e documentato impedimento del lavoratore a
presenziare ali ‘incontro di cui al comma 3” - si tratta di quello fissato
dalla commissione - “la procedura può essere sospesa per un massimo di
quindici giorni”. L’opportunità della effettiva presenza delle parti è
rafforzata dal fatto che nel corso della discussione potrebbero emergere
soluzioni alternative al licenziamento che possono essere diverse ed articolate.
Termini per lo svolgimento della
conciliazione
La procedura di conciliazione ha tempi
predeterminati, nel senso che atteggiamenti dilatori non sono, in sostanza,
consentiti. Essa si deve concludere entro 20 giorni dal momento in cui la
Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la
convocazione per l’incontro. Ciò sta a significare che:
- il termine si calcola dalla data di
convocazione e, quindi, all’interno dei 20 giorni vanno computati anche quelli
necessari alla ricezione della lettera raccomandata (nel
caso in cui sia possibile il “doppio invio per pec” il problema non si pone);
- l’incontro deve necessariamente essere
“ravvicinato” per consentire alle parti un vero confronto.
Si ricorda tuttavia che il termine di 20
giorni può essere superato, anche su richiesta della commissione,
se le parti lo reputano necessario per il raggiungimento di un accordo.
In questo caso è opportuno che lo
“sforamento” risulti da un verbale di riunione interlocutorio; ovviamente ciò
non produce conseguenze sull’esito del tentativo, potendosi lo stesso
concludersi anche con una mancata conciliazione.
Appare evidente come il Legislatore punti
sull’effetto “deflattivo” del tentativo di conciliazione. Ciò lo si deduce sia
dal fatto che le parti possono continuare la discussione
(se sono d’accordo) senza alcuna limitazione temporale, che dalla
partecipazione attiva richiesta alla commissione. Tale partecipazione si
traduce in un attività mediatoria sia in ordine all’accordo sulla indennità
incentivante, che riguardo alla individuazione di forme alternative al
recesso (ad esempio, il ricorso al tempo parziale, il trasferimento.
l’occupazione presso altro datore di lavoro, l’offerta di una collaborazione
autonoma anche presso altri datori di lavoro, il distacco temporaneo, l’attribuzione di altre mansioni) senza la necessità di una formalizzazione
di una vera e propria proposta conciliativa.
Quanto appena detto postula anche la
necessità di interventi organizzativi interni alla utilizzazione del personale
nelle singole Direzioni territoriali del lavoro. La
presidenza della sotto commissione ove, come detto, si svolgeranno la gran
parte delle controversie, dovrà essere affidata ad un funzionario
particolarmente preparato sotto l’aspetto “vertenziale” e con una conoscenza
dei possibili istituti contrattuali da utilizzare in
alternativa al recesso e con ovvia capacità di mediazione. Al tempo stesso,
attesa l’importanza e la delicatezza del nuovo adempimento, si rimette alla
valutazione del singolo Dirigente la possibilità di integrare o meglio utilizzare il personale impiegato nell’attività di supporto,
finalizzato al pieno rispetto dei termini legali.
Tornando ai tempi “cadenzati” della
procedura conciliativa, va sottolineato come il Legislatore prenda in
considerazione una ipotesi di sospensione temporanea della
stessa. Ciò accade (comma 9 del nuovo art. 7 della L. n. 604/1966) in presenza
di un legittimo e documentato impedimento del lavoratore (anche
autocertificabile) a presenziare alla riunione fissata per il tentativo di
conciliazione, per un periodo massimo di 15
giorni. Questo, che può consistere in uno stato di malattia ma anche in un
motivo diverso afferibile alla propria sfera familiare, deve trovare la propria
giustificazione in una tutela prevista dalla legge (ad esempio, un intervento di assistenza ex L. n. 104/1992) o dal contratto. Il motivo
va comunicato alla commissione o sotto commissione provinciale di conciliazione
che ha la “regia” del tentativo e che, se lo ritiene valido, accorda la
sospensione per il tempo richiesto.
Esito negativo del tentativo di
conciliazione
Quanto alle conseguenze legate ad un
fallimento del tentativo di conciliazione, va premesso che ciò può accadere sia
perché le parti non hanno trovato un accordo, sia perché si è verificata
l’assenza o l’abbandono da parte di una di esse (cosa
che va, chiaramente, evidenziata nel relativo verbale). In tali casi il datore
di lavoro può procedere al licenziamento del lavoratore individuato.
In alternativa, se per una qualsiasi
ragione non è stata effettuata la convocazione per il tentativo di
conciliazione richiesto, il datore può procedere con proprio atto di recesso
unilaterale, trascorsi i 7 giorni dalla ricezione della propria richiesta di
incontro da parte della Direzione territoriale del lavoro.
Se la commissione
di conciliazione non riesce ad arrivare ad una composizione della controversia,
essa è tenuta a redigere un verbale di mancato accordo che, tuttavia, stando al
dettato del comma 8 del nuovo art. 7 della L. n. 604/1966, non può essere
generico e privo di contenuti.
Il Legislatore, infatti, afferma che “il
comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto in
sede di commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa
avanzala dalla stessa. è valutato dal giudice per la determinazione del!
‘indennità risarcitoria di cui all’art. 18, settimo comma, della legge n.
300/1970 e per l’applicazione degli articoli 91 e 92 del codice di procedura
civile”.
Dal verbale si deve desumere, con
sufficiente approssimazione, il comportamento tenuto dalle
parti nella fase conciliativa. Ciò non significa che, necessariamente, si
dovranno riportare tutte le questioni sollevate ma dall’atto dovranno emergere
alcune questioni sostanziali riferibili, ad esempio, ad eccezioni sollevate dal lavoratore o da chi lo assiste (ad esempio, si ritiene che il
licenziamento prospettato non sia per giustificato motivo oggettivo, ma
discriminatorio) o alla assoluta indisponibilità a trovare una soluzione di
natura economica alla controversia o ad accettare soluzioni alternative
al recesso.
Licenziamento adottato al termine della
procedura
Va poi ricordato che il licenziamento
adottato al termine della procedura conciliativa ha effetto “dal giorno della
comunicazione con cui il procedimento è stato avviato” - ossia dal giorno di
ricezione, da parte dell’Ufficio, della comunicazione datoriale relativa al
“preavviso di licenziamento” - salvo l’eventuale diritto del lavoratore al
preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. In relazione ai connessi obblighi di comunicazione al Centro per l’impiego si richiama la
lettera circolare del 12 ottobre 2012 secondo la quale “esigenze di certezza in
ordine agli esiti delle procedure di licenziamento impongono di individuare
come dies a quo, ai fini della comunicazione in questione, quello
della risoluzione del rapporto senza tener conto della circostanza secondo la
quale la stessa risoluzione “produce effetto dal giorno della comunicazione con
cui il procedimento medesimo è stato avviato “, cosi come prevede l ‘art. 7, comma 41, della L. n. 604/1966 come sostituito dall’art.
1, comma 40, della L. n. 92/2012. /n tal caso, pertanto, si ritiene che gli
effetti retroattivi del licenziamento non debbano incidere sui termini di
effettuazione dell’obbligo di comunicazione al Centro per’ ‘impiego”.
Si ricorda che, ferma restando la nullità
del licenziamento intervenuto ID costanza di maternità/paternità, gli effetti
del licenziamento rimangono sospesi in caso di impedimento derivante da
infortunio occorso sul lavoro. n periodo di eventuale lavoro
svolto in costanza della procedura si considera come “preavviso lavorato”, con
corrispondente riduzione della relativa indennità in ragione della retribuzione
corrisposta nello stesso periodo.
La disposizione ha lo scopo di individuare una data “legale” di risoluzione del rapporto ed ha un
obiettivo precipuo di evitare possibili rallentamenti procedurali legati
alI’insorgere di una malattia che, indubbiamente, rinvierebbe l’efficacia del
recesso al termine della stessa. Il Legislatore ha fatto salvo l’effetto
sospensivo scaturente pertanto solo dai periodi di tutela per
maternità/paternità ed infortunio sul lavoro .
Esito positivo del tentativo di
conciliazione
Il tentativo di conciliazione può
concludersi positivamente e le soluzioni possono essere diverse,
anche alternative alla risoluzione del rapporto.
In questo caso, la commissione procede
alla verbalizzazione dei contenuti (si pensi, ad esempio, ad un trasferimento,
alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo
parziale) che divengono inoppugnabili, trattandosi di una conciliazione
avvenuta ex art. 410 c. p.c ..
Se, invece, si arriva ad una risoluzione
consensuale del rapporto, la commissione ne darà atto attraverso il verbale
riportandone tutti i contenuti, ivi compresi quelli di natura
economica.
Si ricorda che la risoluzione consensuale
del rapporto al termine della procedura obbligatoria di conciliazione è una
delle ipotesi individuate dal Legislatore (art. 7, comma 7, della L. n.
604/1966) che, derogando alla disciplina ordinaria, riconosce
al lavoratore il diritto al “godimento” dell’ Assicurazione Sociale per
l’impiego (ASpl), destinata a sostituire la “vecchia” indennità ordinaria di
disoccupazione.
La risoluzione consensuale del rapporto
pone una ulteriore questione correlata all’applicazione
dell’art. 4, comma 17, secondo il quale l’efficacia delle dimissioni o della
risoluzione consensuale del rapporto è sospensivamente condi7ionata alla
convalida effettuata presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego competente per territorio, o presso la sede
territoriale individuata dalla contrattazione collettiva o, in alternativa,
attraverso la firma apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della
comunicazione di cessazione del rapporto dì lavoro inviata ai servizi
telematici per l’ impiego. Ebbene, quella della risoluzione consensuale
sottoscritta avanti alla commissione provinciale di conciliazione, presieduta
da un funzionario della Direzione del lavoro, è chiaramente esaustiva rispetto alla procedura e, comunque, sufficiente a non imporre al
lavoratore un ulteriore passaggio avanti ad uno degli organismi a ciò
abilitati, tra i qual i è previsto lo stesso organo periferico del Ministero.
Un’altra questione che potrebbe
presentarsi con una certa frequenza è quella legata
alla possibilità che, in sede di accordo sulla risoluzione del rapporto, si
possa addivenire anche alla composizione di altre questioni di natura economica
afferenti il rapporto di lavoro come, ad esempio, le differenze retributive, le ore di lavoro straordinario o il trattamento di fine
rapporto. La cosa appare possibile purché ci sia la piena consapevolezza del
lavoratore circa la definitività della questione e la sua conseguente
inoppugnabilità ex art. 410 c.p.c .. Ovviamente, qualora dalla
discussione emerga che tale requisito non ci sia, sarà necessario “stralciare”
la parte relativa alla “chiusura delle pendenze economiche” e concentrarsi
soltanto su quello che è l’obiettivo della procedura, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In relazione a quanto sopra va osservato
che, in caso di somme corrisposte a vario titolo al lavoratore (ad accettazione
della risoluzione del rapporto, differenze paga, TFR ecc.), è opportuno
evidenziare separatamente le stesse e, in particolare, quelle
finalizzate all’accettazione del
licenzi amen to.