MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO
CON O SENZA OPERE
(Commento
del geom. Antonio Gnecchi)
Il mutamento
della destinazione d’uso degli immobili prende origine dall’articolo 10 del
d.P.R. n. 380 del 2001 in base al quale “Le regioni stabiliscono con legge
quali mutamenti della destinazione d’uso, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati
a permesso di costruire o a denuncia di inizio di attività”. Il successivo articolo
32, dispone inoltre, che le stesse
regioni stabiliscano quali siano le condizioni che determinano (anche
singolarmente) le “variazioni essenziali” al progetto approvato con un permesso
di costruire, comprendendo, alla lettera a), anche i mutamenti della
destinazione d’uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto
ministeriale 2 aprile 1968.
La legge
regionale 11 marzo 2005, n. 12, ha disciplinato il mutamento della destinazione
d’uso, con gli articoli da 51 a 54, tenendo conto dei seguenti punti fermi:
-
distinguere i cambi d’uso con o senza opere,
- rilevanza
solo se il passaggio di destinazione avviene tra tipologie funzionalmente
autonome dal punto di vista edilizio (abitative, direzionali, commerciali,
produttive, agricole),
- le
destinazioni rilevanti sono quelle che
hanno
diversa incidenza degli “standard” (ora “aree per servizi e attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico o generale”),
-
l’accertamento della preesistenza di un uso.
La legge
regionale n. 4 del 14 marzo 2008, ha modificato l’articolo 51, comma 1, della
legge regionale n. 12/05, stabilendo che le destinazioni principali,
complementari, accessorie o compatibili, possono coesistere senza limitazioni
percentuali e possono, tra esse, sempre variare, salvo quelle escluse dal PGT.
Oggi, in
Lombardia, la materia è disciplinata, come sopra detto, dagli articoli da 51 a
54, della legge regionale n. 12 del 2005 e successive modifiche.
Dinanzi alla
necessità di cambiare destinazione a una unità immobiliare, oggi occorre tener
presente alcuni punti fermi:
1.
distinguere un cambio di destinazione con opere e senza opere, intendendo per
opere quelle che per tipo e consistenza siano idonee a far mutare
l’utilizzazione del bene. Non hanno rilievo le opere edili quali: le
tramezzature senza impianti, opere che solo occasionalmente possono essere
collegate a mutamenti di destinazione d’uso;
2. il
mutamento di destinazione d’uso è urbanisticamente rilevante solo se il
passaggio di destinazione avviene tra tipologie funzionalmente autonome dal
punto di vista edilizio. Per categorie si intendono quelle stabilite da leggi
regionali: abitative, direzionali, commerciali e di servizio, produttive,
agricole, alberghiere;
3. le
categorie rilevanti, dopo la modifica introdotta dalla legge collegata alla
Finanziaria (legge n. 662 del 1996), saranno quelle individuate dalla regione,
con ulteriori rinvii ai PRG (o PGT) dei comuni. Quale principio di massima, le
categorie rilevanti ai fini urbanistici, sono quelle che hanno diversi standard
nelle dotazioni di parcheggi, infrastrutture, strade, fogne o altre opere di
urbanizzazione. Esempio: il passaggio di una abitazione a studio professionale,
effettuato senza opere, deve ritenersi ammesso, anche se è venuta meno
l’applicazione regionale di cui all’articolo 25 della legge n. 47/85, ora
articolo 10, comma 2, d.P.R. 380/01;
4.
l’accertamento della preesistenza di un uso. Esempio: cambio d’uso, con opere,
da ufficio ad abitazione che sia stato preceduto da un cambio di destinazione
d’uso da abitazione a ufficio della stessa unità immobiliare. In tal caso, è
agevole ripristinare l’uso precedente, dimostrando tale circostanza con prove
di versamento di bollette telefoniche, elettriche, ecc.;
5. comunque
i comuni interpretino la nuova norma con riferimento alle leggi regionali
antecedenti, occorre tener presente che i cambi di destinazione d’uso senza
opere precedenti l’attività dei comuni, attuativa dell’articolo 25, non è
sanzionabile.
La legge
regionale 12/05 ha stabilito che sono i comuni ad indicare nei PGT quali casi
di mutamenti di destinazione d’uso di aree e di edifici, attuati con opere
edilizie, che comportano un aumento ovvero una variazione del fabbisogno di
aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.
L’articolo
52 ha ripreso il precedente articolo 2 della legge regionale 01/01 sui
mutamenti di destinazione d’uso con o senza opere, così come l’articolo 53
quello delle sanzioni amministrative dell’ex articolo 3 stessa legge regionale
01/01.
Nello stesso
capo VI è stata introdotta la disciplina sulla determinazione delle variazioni
essenziali (ex articolo 1, legge regionale 19/92) il cui primo comma, lettera
a), dispone che costituisce variazione essenziale anche il mutamento della
destinazione d’uso che determina carenze di aree per servizi e attrezzature di
interesse generale, salvo i casi di cui ai commi 4 e 5 del precedente articolo
51.
L’articolo
52, comma 3, della legge regionale 12/05 ha modificato l’articolo 19, comma 3,
d.P.R. 380/01, togliendo il riferimento alle destinazioni da agricole a
produttive o altro, ma semplicemente comunque modificata nei 10 anni successivi
all’ultimazione dei lavori, il contributo di costruzione è dovuto nella misura
massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al
momento dell’intervenuta variazione. Quanto sopra in esecuzione al dettato di
cui all’articolo 25, della legge 47/85, che era stato recepito dalla Regione
Lombardia con la legge regionale 19/92, ora confluita appunto nella legge
regionale 12/05.
La legge
regionale 14 marzo 2008, n. 4, con l’articolo 1, comma 1, lettera xx), ha
sostituito l’articolo 51, comma 1, della legge regionale n. 12/2005,
introducendo, per le destinazioni d’uso degli edifici, oltre a quella
principale, quella complementare, accessoria o compatibile,, purché siano
previste dallo strumento urbanistico generale, senza limitazioni, salvo quelle
eventualmente escluse dal PGT.
In primo
luogo la nuova formulazione vuole porre un punto fermo alle destinazioni d’uso
degli immobili condonati affermando che le stesse sono quelle derivanti dai
provvedimenti definitivi, oltre ad essere compatibili con quelle ammesse dagli
strumenti urbanistici.
In secondo
luogo (è più significativo del primo) che le destinazioni principali,
complementari, accessorie o compatibili, possono coesistere senza limitazioni,
percentuali e possono tra esse, sempre variare, salvo quelle escluse dal PGT.
Ricordo che
già la legge regionale 12/2005 prescrive di stabilire nei PGT le destinazioni
d’uso non ammesse.
Questa norma
impone ai comuni di individuare al meglio le destinazioni d’uso escluse, con la
conseguenza di dimenticarne alcune che potrebbero creare problemi alle stesse
amministrazioni comunali.
Potrebbe
essere significativa l’approvazione di una norma che stabilisca l’esclusione di
tutte le destinazioni d’uso, ad eccezione di quelle residenziali, commerciali,
terziario diffuso e artigianato di servizio, non nocivo e molesto.
Altra modifica
introdotta riguarda il comma 2 dell’articolo 52, secondo la quale gli
interessati sono obbligati a presentare la comunicazione di mutamenti di
destinazione d’uso anche in caso questa riguardi unità immobiliari o parti di
essa, la cui superficie lorda di pavimento sia inferiore a 150 mq.
In questo
caso è stata eliminata la precedente previsione in quanto sembra che
l’esclusione di tale adempimento ponesse qualche problema ai comuni per
l’eventuale corresponsione del contributo di costruzione dovuti per le nuove
destinazioni, oltre a tributi diversi.
La stessa
legge regionale n. 4 del 2008 ha introdotto l’obbligo di assoggettare a
permesso di costruire i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non
comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di
luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali.
Un punto
fermo dell’articolo 52, legge regionale n. 12/2005, è costituito dal comma 1,
secondo il quale “i mutamenti di destinazione d’uso, conformi alle previsioni
urbanistiche comunali, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non
mutano la qualificazione dell’intervento e sono ammesse anche nell’ambito di
piani attuativi in corso di esecuzione”.
Questo
significa che:
1- possono
verificarsi mutamenti di destinazione d’uso nell’ambito di interventi di
manutenzione straordinaria,
2- possono
verificarsi mutamenti di destinazione d’uso nell’ambito di interventi di
restauro e risanamento conservativo,
3- possono
verificarsi mutamenti di destinazione d’uso nell’ambito di interventi di
ristrutturazione edilizia.
A proposito
delle tipologie d’intervento, ritengo necessario ribadire, ancora una volta,
alcune precisazioni in ordine alle definizioni di cui all’articolo 3 del Testo
Unico dell’Edilizia, approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380:
a) il
legislatore ha cercato di ricondurre la suddivisione delle categorie di
interventi edilizi non solo e non tanto nella mera descrizione analitica degli
interventi possibili, ma soprattutto alla qualificazione concettuale della loro
finalità ed esito ultimo. Pertanto ha qualificato le varie modalità di
intervento sugli edifici differenziandole su base qualitativa (e non
quantitativa) della tipologia dei lavori che la caratterizzano, istituendole
come “categorie contigue” tra loro per contenuto tecnico via via più complesso
ed esteso.
b) il
discrimine tra l’una e l’altra di queste categorie è dunque sottile in quanto
esse rappresentano una sorta di “progressione” dell’entità e complessità
dell’intervento edilizio eseguito (o da eseguire). Spesso si pone il problema
di riconoscere la tipologia partendo dalla complessità delle definizioni degli
interventi che non sempre portano a linee di demarcazione ben definite tra
l’una l’altra categoria come il legislatore vorrebbe.
c) è
opportuno, pertanto, ricorrere alla catalogazione concettuale voluta dal
legislatore per qualificare gli interventi, evitando di ricercare la soluzione
del problema in ulteriori e più analitiche descrizione di lavori. Per esempio,
prima ancora che dalla descrizione analitica, si dovrà dedurre che i lavori
sono di manutenzione quando rispondono alla definizione di “ …. opere….
necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici
esistenti “ (definizione di manutenzione ordinaria) o, al massimo, a quella di
“…… opere e ….. modifiche necessarie per ….. realizzare ed integrare i servizi
igienici – sanitari e tecnologici, sempre che ….. non comportino modifiche
delle destinazioni d’uso” (definizione della manutenzione straordinaria). Per “salire”
alle categorie superiori occorre invece “ …… un insieme sistematico di opere
….” rivolto a “ conservare l’organismo edilizio” che “ ne consentano destinazioni d’uso con
essi compatibili” e “prevedano l’inserimento (dunque ex novo) ……. degli impianti
richiesti dalle esigenze dell’uso” (categoria del restauro e risanamento
conservativo) o, ancora, tali da “ trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere ….” (definizione di ristrutturazione edilizia).
d) si può
concludere che laddove non vi sia il richiesto “insieme sistematico di opere“
teso alla conservazione o alla trasformazione (tale dunque da configurare
rispettivamente il “restauro e risanamento conservativo”, ovvero la
“ristrutturazione edilizia”), vi sia la mera esecuzione di singoli interventi
di “adeguamento o rinnovamento dell’esistente” (e per di più con la
conservazione delle destinazioni in essere), si verte semplicemente nelle
categorie manutentive.
Ricordo che
le definizioni degli interventi edilizi di cui all’articolo 3 del d.P.R. n.
380/2001, non sono esattamente le stesse di quelle stabilite dalla legge
regionale n. 12 del 2005, con l’articolo 27, ed in particolare, per quanto
riguarda gli interventi di manutenzione straordinaria, non è precluso il mutamento
della destinazione d’uso delle singole unità immobiliari. Ciò giustifica, di
fatto, quanto disciplinato dal successivo articolo 52, comma 1, secondo il
quale “ i mutamenti di destinazione d’uso, conformi alle previsioni
urbanistiche comunale, connessi alla realizzazione di opere edilizie, non
mutano la qualificazione dell’intervento e sono ammessi anche nell’ambito di PA
in corso di esecuzione”.
Una breve
annotazione merita l’applicazione delle sanzioni che riguardano i mutamenti di
destinazione d’uso con o senza opere.
L’articolo
53 della legge regionale n. 12 del 2005 stabilisce le sanzioni amministrative,
fermo restando l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 31 del dPR
n. 380/2001 per le violazioni essenziali di cui al successivo art. 32,
stabilite, appunto, dall’articolo 54 della stessa legge regionale.
Partendo,
pertanto, proprio da quest’ultima ipotesi, si ribadisce che le modifiche
edilizie che comportano il mutamento delle destinazioni d’uso che determinano
carenza di aree per servizi e attrezzature di interesse generale, costituiscono
o determinano “variazioni essenziali” e, come tali, sono perseguibili ai sensi
dell’articolo 31 del dPR n. 380/2001 (compreso l’applicazione delle sanzioni
penali), fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 51, commi 4 e 5,
A mente
dell’articolo 32 del Testo Unico per l’Edilizia si tenga conto che non
costituiscono variazioni essenziali quelle che incidono sull’entità delle
cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interne delle
singole unità abitative, mentre il mutamento di destinazione d’uso che implica
variazione degli standard, effettuato su
immobili sottoposti a vincoli, sono considerati in totale difformità dal
permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44 del citato decreto.
Diversamente,
in base appunto alle sanzioni di cui all’articolo 53 (solo amministrative), è
previsto che:
1- per i
mutamento della destinazione d’uso, con opere, in difformità alle vigenti
previsioni urbanistiche comunali, si applicano le sanzioni amministrative
previste dalla legislazione vigente per le opere in assenza o in difformità dal
permesso di costruire, ovvero in assenza o in difformità dalla Dia,
2- per i
mutamenti delle destinazioni d’uso, senza opere, ancorché comunicati preventivamente
al comune, risultino in difformità alle vigenti previsioni urbanistiche
comunali, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari all’aumento del
valore venale dell’immobile o sua parte, oggetto di mutamento di destinazione
d’uso, non inferiore a 1000 euro,
3- per i
mutamenti di destinazione d’uso, con opere, effettuati in assenza dell’atto
unilaterale d’obbligo (previsto o convenzionato), ovvero in difformità ai
medesimi, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari al doppio degli
oneri di urbanizzazione dovuti per l’interveto, non inferiore a 1000 euro.
La questione
dell’onerosità degli interventi per il mutamento della destinazione d’uso degli
immobili, è del tutto autonoma in quanto prescinde dall’esistenza o meno di una
Dia o di un permesso di costruire, per cui l’onerosità è dovuta, limitatamente
alla differenza tra la nuova e la vecchia destinazione.
Attualmente
l’articolo 52 della legge regionale n. 12 del 2005, disciplina i mutamenti
della destinazione d’uso con o senza opere edilizie, e stabilisce che:
- quelli
connessi alla realizzazione di opere edilizie, conformi alle previsioni dello
strumento urbanistico, non mutano la qualificazione dell’intervento, e sono
ammessi anche in ambito di PA in corso di attuazione,
- per quelli
non comportanti la realizzazione di opere edilizie, conformi al PGT e alla
normativa igienico sanitaria, basta la comunicazione preventiva al comune,
quale che sia la superficie interessata dal mutamento di destinazione d’uso,
- la
corresponsione del contributo di costruzione, qualora la destinazione d’uso
degli immobili sia modificata nei dieci anni successivi all’ultimazione dei
lavori, è dovuta nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione,
determinata con riferimento al momento dell’intervenuta variazione,
- l’obbligo
di richiedere il permesso di costruire per quelli che prevedono la creazione di
luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali.
Prima di
riportare i contenuti di alcune sentenze (per altro recenti) sul mutamento
della destinazione d’uso, significative ed interessanti, ritengo nuovamente
utile tornare sull’aspetto dell’onerosità di quelli non comportanti la
realizzazione di opere edilizie.
Come sopra
si diceva, per i mutamenti della destinazione d’uso, senza opere, è previsto,
dal punto di vista procedurale, il solo obbligo della preventiva comunicazione
al comune (senza limite di superficie lorda di pavimento).
Fuori
dall’ipotesi del comma 3 dell’articolo 52 ella LR n. 12/2005, è il mutamento di
destinazione d’uso, senza opere, ancorché sottratto a qualunque atto di
assenso, che è soggetto al pagamento del contributo qualora la nuova
destinazione comporti un maggior carico urbanistico.
La
circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non soggette a
preventivo titolo, non comporta, di diritto, l’esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Il
contributo non è geneticamente collegato al rilascio di un nuovo permesso di
costruire, per cui il mutamento di destinazione d’uso, anche se non soggetto a
nessun titolo abilitativo (in quanto senza opere), cui consegua un maggior
carico urbanistico comporta l’onere del pagamento della differenza tra gli
oneri connessi alla destinazione originaria e quelli dovuti per la nuova
destinazione impressa.
Il mutamento
di destinazione, se riconducibile ad una classe contributiva diversa e più
onerosa della precedente, tale che, se il titolo abilitativo fosse stato
richiesto fin dall’origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un
diverso e meno favorevole contributo urbanistico, impone l’applicazione della
norma di cui all’ex articolo 10, della legge n. 10/1977, ora confluito
<nell’articolo 19, comma 3, del dPR n. 380/2001 (recepito dall’art. 52,
comma 3, L.R. n. 12/2005, togliendo il riferimento alle destinazioni da
agricole a produttive o altro). Una ulteriore annotazione riguarda il
contributo di costruzione per cambio di destinazione d’uso di un locale. Si
tratta di partecipazione del singolo al carico del comune per i servizi
derivanti dalle opere di urbanizzazione. Il contributo diviene privo di causa
se la costruzione autorizzata non venga eseguita, ma se viene eseguita e
utilizzata secondo la sua destinazione, l’onere contributivo non manca di
causa. La partecipazione agli oneri non è legata ad un periodo minimo di
utilizzazione ma è connessa col potenziale godimento, e non misurabile nel
tempo, delle opere di urbanizzazione e non ne può quindi essere richiesta la
restituzione ove il carico urbanistico dell’opera venga a mutare in quanto in
tal caso sorge un nuovo obbligo che prescinde da quello assolto in precedenza
per un’opera di diverso carico urbanistico.
In
definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di destinazione d’uso
(comunicazione dell’interessato in questo caso), l’amministrazione può
legittimamente calcolare di nuovo il quantum dovuto in relazione al diverso
carico urbanistico derivante dall’insediamento di un’attività di tipo direzionale
piuttosto che di una residenza, tenuto presente che, come già illustrato, il
contributo di urbanizzazione non è genericamente collegato al rilascio di un
nuovo titolo abilitativo, ma rappresenta la compartecipazione posta a carico
del titolare dell’alloggio alle utilità derivanti dalla presenza delle opere di
urbanizzazione.
La
Giurisprudenza, sia dei TAR che del CdS, in diverse occasioni, hanno sostenuto
quanto sopra affermato.
Ricordo, per
tutte:
- TAR
Lombardia, sezione Brescia, 13 giugno 2002, n. 957
- TAR
Lombardia, sezione Brescia, 10 marzo 2005, n. 145
- CdS , sezione V, 12 giugno 2002, n. 3268
Di seguito
si riportano le sintesi di alcune sentenze della Giustizia amministrativa
riguardanti appunto il mutamento della destinazione d’uso degli immobili.
EDILIZIA
PRIVATA: Il mutamento di destinazione d’uso di una porzione
dell’immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e
contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante
nell’ambito della categoria della “ristrutturazione edilizia”.
Coerentemente,
anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore
degli edifici”, non possono rientrare nella esimente di cui all’art. 149, 1°
comma lett.
a) d.lgs. n.
42/2004 (di cui –avuto riguardo alla natura eccezionale della relativa
disposizione, in quanto prefigurativa di una specifica deroga al regime
autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire arbitrarie interpretazioni
estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del (concorrente e necessario)
requisito tipologico (id est, per la argomentata non sussumibilità nella
categoria di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di
consolidamento statico e restauro conservativo).
Contrariamente
a quanto prospettato dal gravame, il mutamento di destinazione d’uso di una
porzione dell’immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal
precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi
rientrante nell’ambito della categoria della “ristrutturazione edilizia”, come
si evince, del resto, dall’esplicito riferimento a tale tipologia di intervento
presente nell’art. 10 comma 1° lettera c) d.p.r. n. 380/2001 (in termini, TAR
Lazio Roma, sez. I, 20.09.2011, n. 7432, TAR Sardegna, sez. II, 06.10.2008, n.
1822), come tale sussumibile nella tipologia 3 di cui all’allegato 1 della l.
n. 326/2003, che preclude la possibilità di sanatoria per il caso di
sussistenza del vincolo di cui all’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47.
Coerentemente,
anche le attività che “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore
degli edifici”, non possono, come auspicato, rientrare nella esimente di cui
all’art. 149, 1° comma lett. a) d.lgs. n. 42/2004 (di cui –avuto riguardo alla
natura eccezionale della relativa disposizione, in quanto prefigurativa di una
specifica deroga al regime autorizzatorio ordinario– non pare lecito fornire
arbitrarie interpretazioni estensive: arg. ex art. 14 prel.), per difetto del
(concorrente e necessario) requisito tipologico (id est, per la argomentata non
sussumibilità nella categoria di interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria, di consolidamento statico e restauro conservativo) (TAR
Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
EDILIZIA
PRIVATA: Circa il quadro normativo in materia di mutamenti di
destinazione d’uso lo si può riassumere come di seguito riportato.
Prima della
legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa si era attestata nel senso
di ritenere illegittime le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici
che prevedessero limitazioni del mutamento di destinazione d’uso degli immobili
attuato senza opere edilizie, con l’ulteriore corollario che il mutamento
dell’uso così attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della
concessione edilizia, né dell’autorizzazione edilizia.
Tale assetto
mutava per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal
combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente
disciplina:
a) erano
soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d’uso che
intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, atteso che all’interno della stessa categoria potevano realizzarsi
mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il
mutamento di destinazione d’uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio
(per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo
interno, era assoggettato al regime dell’autorizzazione, stante l’espressa
previsione dell’applicabilità del regime delle opere interne (di cui all’art.
26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che “non modifichino la
destinazione d’uso delle costruzioni”;
c) il
mutamento di destinazione d’uso senza opere era regolato dall’art. 25, ultimo
comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il
compito di stabilire “criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni,
all’atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l’eventuale
regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della
destinazione d’uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di
essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione”.
La
situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all’art. 25,
ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall’art. 2, comma 60, della legge n.
662/1996, secondo il quale “le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti,
connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di
loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione”.
La
disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina
dei mutamenti di destinazione d’uso -e così la facoltà di poter applicare una
disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per
quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a concessione
edilizia i mutamenti d’uso maggiormente significativi, ovvero quelli
comportanti un maggiore impatto sull’assetto urbanistico-territoriale (secondo
la suddivisione del territorio in zone residenziali ‘’A’’, ‘’B’’ e ‘’C’’,
produttive ‘’D’’, agricole ‘’E’’, e destinate ad attrezzature ed impianti di
interesse generale ‘’F’’, operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice
autorizzazione, quelli attuati all’interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo
l’art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni
stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati
a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
La
conclusione che precede è, del resto, l’unica coerente con il quadro normativo
di riferimento in materia di mutamenti di destinazione d’uso, che giova di
seguito riassumere (in termini, da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII,
22.02.2012, n. 885).
Prima della
legge n. 47/1985, la giurisprudenza amministrativa (ex multis, Cons. Stato,
sez. IV, 28.07.1982, n. 525) si era attestata nel senso di ritenere illegittime
le disposizioni contenute negli strumenti urbanistici che prevedessero
limitazioni del mutamento di destinazione d’uso degli immobili attuato senza
opere edilizie, con l’ulteriore corollario che il mutamento dell’uso così
attuato non era soggetto alla preventiva acquisizione della concessione
edilizia, né dell’autorizzazione edilizia.
Tale assetto
mutava per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 47/1985. Infatti, dal
combinato disposto degli articoli 8, 25 e 26 di tale legge emergeva la seguente
disciplina:
a) erano
soggetti a regime concessorio soltanto i mutamenti di destinazione d’uso che
intervenivano tra categorie funzionalmente autonome sotto il profilo
urbanistico, atteso che all’interno della stessa categoria potevano realizzarsi
mutamenti di fatto privi di incidenza sui carichi urbanistici;
b) il
mutamento di destinazione d’uso accompagnato da qualsiasi intervento edilizio
(per il quale non fosse altrimenti prevista la concessione), anche se solo
interno, era assoggettato al regime dell’autorizzazione, stante l’espressa
previsione dell’applicabilità del regime delle opere interne (di cui all’art.
26, comma 1, della legge n. 47/1985) alle opere che “non modifichino la
destinazione d’uso delle costruzioni”;
c) il
mutamento di destinazione d’uso senza opere era regolato dall’art. 25, ultimo
comma, della legge n. 47/1985, il quale demandava al legislatore regionale il
compito di stabilire “criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni,
all’atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l’eventuale
regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, della
destinazione d’uso degli immobili, nonché dei casi in cui, per la variazione di
essa, sia richiesta la preventiva autorizzazione”.
La
situazione mutava ulteriormente a seguito della novella apportata all’art. 25,
ultimo comma, della legge n. 47/1985, dall’art. 2, comma 60, della legge n.
662/1996, secondo il quale “le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti,
connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di
loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione”.
La
disposizione in esame, nel delegare definitivamente alle Regioni la disciplina
dei mutamenti di destinazione d’uso -e così la facoltà di poter applicare una
disciplina uniforme, tanto per quelli di carattere strutturale, quanto per
quelli di carattere funzionale- introduceva la facoltà di sottoporre a
concessione edilizia i mutamenti d’uso maggiormente significativi, ovvero
quelli comportanti un maggiore impatto sull’assetto urbanistico-territoriale
(secondo la suddivisione del territorio in zone residenziali ‘’A’’, ‘’B’’ e
‘’C’’, produttive ‘’D’’, agricole ‘’E’’, e destinate ad attrezzature ed
impianti di interesse generale ‘’F’’, operata dal D.M. n. 1444/1968), ed a semplice
autorizzazione, quelli attuati all’interno della medesima categoria funzionale.
Da ultimo
l’art. 10 del D.P.R. 380/2001 ha previsto, al comma 2, che le Regioni
stabiliscano con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati
a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività (TAR Campania-Salerno,
Sez. I, sentenza 24.09.2012 n. 1683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
EDILIZIA
PRIVATA: La destinazione d’uso di un immobile non si identifica con
l’impiego che in concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la
destinazione impressa dal titolo abilitativo, e ciò in quanto la nozione di
“uso” urbanisticamente rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile
–quale individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere
influenzata da utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti
autorizzatori e/o pianificatori.
Va premesso
che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, la destinazione d’uso
di un immobile non si identifica con l’impiego che in concreto ne fa il
soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo abilitativo
(v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 583; TAR Liguria, Sez. I,
25.01.2005 n. 85), e ciò in quanto la nozione di “uso” urbanisticamente
rilevante è ancorata alla tipologia strutturale dell’immobile –quale
individuata nel titolo edilizio–, senza che essa possa essere influenzata da
utilizzazioni difformi rispetto al contenuto degli atti autorizzatori e/o
pianificatori (v., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 07.05.1992 n.
219) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 07.09.2012 n. 537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
EDILIZIA
PRIVATA: Modifica di destinazione ed aggravio del carico urbanistico.
L’aggravio
urbanistico va considerato in relazione alla interezza della condotta ed alle
finalità perseguite con le realizzazioni abusive. Il mutamento di destinazione
dell’area attraverso la realizzazione delle opere contestate comporta
evidentemente l’inadeguatezza delle strutture (strade, fognature,
elettrificazione, ecc.) che non possono non essere diverse tra un’area “verde”
ed una adibita a scopo produttivo per le diverse esigenze delle stesse (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.08.2012 n. 33353 - tratto da
www.lexambiente.it).
EDILIZIA
PRIVATA: Decreto sviluppo. Cambi d’uso e manutenzione straordinaria
senza permessi.
Per gli
immobili d’impresa si amplia l’edilizia libera. Le incertezze interpretative
frenano però l’applicazione.
I DUBBI/ Le
modifiche urbanistiche non possono interessare i fabbricati che non sono ancora
adibiti alle attività produttive.
Il
legislatore nazionale torna a occuparsi dell’attività edilizia libera, con
l’articolo 13-bis del Dl 83/2012, introdotto dalla legge di conversione in
attesa di pubblicazione sulla «Gazzetta»). Dopo le significative modificazioni
già apportate alla materia dal Dl 40/2010, la nuova norma amplia ulteriormente
il novero degli interventi per la cui esecuzione non è necessario un titolo
abilitativo, inserendo al secondo comma dell’articolo 6 del Dpr 380/2001 la
lettera e-bis), specificamente rivolta agli immobili utilizzati per lo
svolgimento di attività imprenditoriali, nel cui ambito, stante la generalità
(o genericità) del termine, possono ragionevolmente ricomprendersi di fatto
tutti gli immobili non destinati alla residenza (capannoni e negozi, ad
esempio).
Da domani,
quindi, sarebbe sufficiente una semplice comunicazione al Comune sia per
realizzare «le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta
dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa», sia per effettuare «le
modifiche della destinazione d’uso» di questi locali.
La
disposizione solleva varie perplessità, innanzitutto per il ricorso alla
locuzione “modifiche interne” senza alcuna ulteriore specificazione tipologica.
Appare azzardato ipotizzare che il legislatore abbia inteso consentire
cambiamenti anche di tipo strutturale, oppure interventi riconducibili al
novero della ristrutturazione o del restauro e risanamento conservativo, poiché
in tal caso verrebbe a delinearsi una incongrua disparità di trattamento e il
sospetto di incostituzionalità della previsione. Infatti, solo i proprietari di
immobili adibiti ad attività imprenditoriali risulterebbero esentati dalla
necessità di un titolo abilitativo per queste categorie di interventi.
È quindi
preferibile una lettura costituzionalmente orientata, che riconduca le
modifiche interne nel novero degli interventi di manutenzione straordinaria
ammessi dal comma 2, lettera a), che già contempla «l’apertura di porte interne
o lo spostamento di pareti interne»; anche in questo caso con ovvia esclusione
delle opere di tipo strutturale –per le quali è richiesto in via generale il
titolo abilitativo– e senza alcun mutamento di destinazione d’uso, trattandosi
di modifiche edilizie relative a fabbricati comunque già adibiti a esercizio di
impresa. Ma con questa più prudente chiave interpretativa, la previsione
finisce con lo svuotarsi di contenuto sostanziale.
Anche la
seconda parte della disposizione desta incertezze, nella misura in cui prevede
la possibilità di effettuare «modifiche della destinazione d’uso dei locali
adibiti ad esercizio d’impresa». Trattandosi di misure teoricamente volte a
favorire le iniziative produttive, la norma avrebbe forse dovuto adoperare il
termine “da adibirsi”, così sancendo la possibilità di utilizzare a esercizio
di impresa spazi in precedenza destinati ad altro uso. Inoltre, se i locali
sono (già) adibiti ad attività imprenditoriale, la modifica d’uso non potrà che
avvenire nell’ambito della stessa tipologia ed essere di tipo funzionale,
quindi senza l’esecuzione di opere. Diversamente si ricadrebbe in un’ipotesi
interpretativa sperequata e di dubbia costituzionalità, esentando i soli
proprietari imprenditori dall’obbligo del previo titolo abilitativo (che nelle
zone omogenee “A” è il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 10, primo
comma, lettera c), Testo unico).
Secondo la giurisprudenza
(si veda ad esempio Consiglio di Stato, Sezione V, 1650/2010, 498/2009; Tar
Lazio-Roma, 4622/2011; Cassazione penale, Sezione III, 20350/2010) il mutamento
di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell’ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi
urbanistico costruttivi, stante le sostanziali equivalenze dei carichi
urbanistici nell’ambito della medesima categoria. Peraltro, in questo caso, la
modifica d’uso non dovrebbe comportare il pagamento di un ulteriore contributo
di costruzione.
La
previsione, dunque, dovrebbe essere letta e interpretata tenendo presente le
possibili ripercussioni del mutamento d’uso sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie massime assentibili in relazione agli indici della zona, così come
individuati dai piani regolatori generali, nonché i limiti di carattere
generale posti per l’attività edilizia che può essere eseguita in assenza di
pianificazione urbanistica, specie per ciò che attiene alle destinazioni
produttive (articolo 9, testo unico).
Le
conclusioni che si possono trarre dai contenuti della precedenti sentenze, sono
sostanzialmente le seguenti:
1) l’attuale
assetto dei mutamenti delle destinazioni d’uso degli immobili parte dalla legge
n. 662 del 1996, secondo la quale “le leggi regionali stabiliscono quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di
immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione”. L’articolo 25
della legge sopra citata, nel delegare alle regioni la disciplina dei mutamenti
di destinazione d’uso, sia per quelli di carattere strutturale, quanto quelli
di carattere funzionale, ha introdotto la facoltà di sottoporre a “concessione
edilizia” i mutamenti d’uso maggiormente significativi, ovvero quelli
comportanti un maggior carico urbanistico sul territorio comunale (con
riferimento al DM n,. 1444/1968) ed a semplice “autorizzazione edilizia”,
quelli attuati all’interno della stessa categoria funzionale,
2) il Testo
unico dell’Edilizia, approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 ha ripreso tale
impostazione. prevedendo, con l’articolo 10, comma 2, che le regioni
stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazione
fisiche ….. sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio
attività.
3) la
destinazione d’uso di un immobile non si identifica con l’impiego che in
concreto ne fa il soggetto utilizzatore, ma con la destinazione impressa dal titolo
abilitativo,
4) con
l’entrata in vigore del D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del
2012, una norma prevede che alcuni interventi non siano subordinati a un titolo
abilitativo e, tra questi (vedi l’art. 6, lettera e-bis), del d.P.R. n.
380/2001), siano subordinati ad una semplice comunicazione al comune per
realizzare “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta
dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa”, oppure, “le modifiche della
destinazione d’uso” di questi locali. Anche la seconda parte della disposizione
desta incertezze, nella misura in cui prevede la possibilità di effettuare
“modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa”.
Sebbene la norma non è scritta come avrebbe dovuto esserlo, consente di
utilizzare a esercizio di impresa spazi già
produttivi, la cui modifica d’uso non potrà che avvenire nell’ambito
della stessa tipologia produttiva, di tipo funzionale. In questo caso, la modifica non dovrebbe
comportare il pagamento di un ulteriore contributo di costruzione.